Lutto. Addio a D'Amico, eroe della Lazio dello scudetto '74
Vincenzo D'Amico in veste di commentatore
Se negli anni di piombo della Lazio c’è stato un Capitano, era Vincenzo D’Amico. Se nell’irripetibile stagione laziale sulle montagne russe c’è stata una bandiera, era Vincenzo D’Amico. Tra campionato e coppe, 336 presenze e 49 reti in biancoceleste, tutte di fila con l’unico intermezzo - consumato contro voglia per evitare il fallimento del presidente Lenzini - nella Torino granata prima di finire nella Ternana ed appendere gli scarpini al chiodo. Dallo scudetto al calcioscommesse, fino all’incubo della Serie C sfiorata un paio di volte negli anni ’80, per lunghi 16 anni il suo zampino nella Lazio c’è sempre stato. Si perché O’Rey di Piazza Roma, così lo chiamavano nella natia Latina per incensarne le funamboliche doti in odore di Pelè, più di qualsiasi altro calciatore è stato capace di incarnare l’anima fiera e radicale, ma al tempo stesso umile e vera, della lazialità senza ambiguità.
Ai tempi della Lazio - Ansa
«All'epoca mi sentivo un deficiente: senza patente, senza soldi». Alla fine degli anni ’60 passò dagli allievi provinciali del COS dell’Oratorio Salesiano all’Almas Roma dell’Appio Latino Metronio, nella Capitale finito nel mirino dei giallorossi del mago Helenio Herrera, approdato poi nelle giovanili della Lazio, trafila completa dalla De Martino di Bob Lovati fino alla corte di Tommaso Maestrelli in prima squadra. Nell’impresa tricolore del 1974, a soli 19 anni si laurea campione d’Italia, protagonista indiscusso sotto l’ala protettiva di Chinaglia, Wilson e Re Cecconi. In mezzo a quel mucchio selvaggio tra pistole e palloni, D’Amico era il cucciolo, coccolato e amato da tutti: «Una leggenda, capitano nei momenti difficili», ricorda la Lazio di oggi. Quando Maestrelli era già morto per un tumore, Re Cecconi rimasto muto sull’asfalto di una gioielleria per un colpo di pistola al petto, Long John fuggito in America per i dollari del Cosmos e il gioiello di Trastevere Bruno Giordano sugli scalini di Regina Coeli insieme a Wilson, Cacciatori e Manfredonia per le martingale di Trinca e Cruciani in odore di banda della Magliana e camorra napoletana, Vincenzo D’Amico guidava più o meno da solo i ragazzini della Primavera contro il Catanzaro nell’insperata salvezza sul campo, era il 1980, conquistata matematicamente a Udine, pagato da Roma il pullman degli Eagles Supporters per fare il tifo come in famiglia. Icona del campo di Tor di Quinto e abituale sin dai tempi dei GABA (Gruppi Associati Bianco Azzurri) nella sede dei tifosi in Via Saint Bon nel rione Prati, il numero 10 fascia rossa al braccio salvò per la prima volta la Lazio dalla terza serie con una tripletta al Varese nel 1982. Stadio Olimpico deserto, Curva Nord in contestazione, di punizione e rigore, sigillò nel trionfo monco un amore mai tradito. Come nella doppietta alla Roma tricolore di Falcao, Cerezo e Pruzzo, sempre lui l’anima indomita di una Lazio povera e maledetta. Che retrocesse ancora in B, per poi risalvarsi sul filo di lana ancora una volta dalla C, corsara sul Comunale di Catanzaro nella stagione 1985-86, quella dell’addio all’Aquila prima di finire in TV a fare il commentatore.
Il resto è storia dei giorni nostri. Era malato, l’annuncio un paio di mesi fa su Facebook: «Mi dicono che i malati oncologici tirano fuori forze inaspettate! Io ci sto provando!» Ci ha provato fino all’ultimo, andandosene oggi in punta di piedi. Lasciando l’attaccamento alla maglia e alla sua gente in eredità alla storia della Lazio. Un esempio da un calcio d’altri tempi.