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Lo scrittore. Abraham Verghese: «Il medico cura l'umano prima che l'uomo»

Daniela Pizzagalli martedì 26 marzo 2024

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Dopo il clamoroso successo internazionale di Il patto dell’acqua, esce in traduzione italiana il precedente romanzo del medico scrittore Abraham Verghese, La porta delle lacrime (Neri Pozza, pagine 621, euro 22,00) che già contiene i punti forti della sua narrativa: una storia avvincente e personaggi dai grandi ideali che si battono con tenacia nelle tempeste della vita. Questo romanzo è più legato all’esperienza personale dell’autore, nato in Etiopia da genitori indiani e poi trasferito negli USA, dove ora insegna alla prestigiosa Stanford School of Medicine. I protagonisti sono due gemelli omozigoti, Marion e Shiva, nati negli anni ‘50 in un ospedale missionario di Addis Abeba da un tragico parto che uccide la madre e adottati dalla dottoressa indiana che li ha salvati. Entrambi sviluppano una passione per la chirurgia, sullo sfondo del conflittuale scenario storico tra la fine dell’impero di Hailé Selassié, la guerra civile e le lotte per l’indipendenza eritrea.

Tra i personaggi emergono straordinarie figure di medici e le sale operatorie sono spesso il teatro dell’azione. Professor Verghese, come mai si sofferma su tante dettagliate e cruente descrizioni?
«Credo che la chirurgia sia per sua natura drammatica, per l’azione d’invadere il corpo, qualcosa che per molti secoli è stata inimmaginabile. Inoltre alcuni dei progressi della chirurgia, come il trapianto da vivente e addirittura il trapianto parziale di fegato da un donatore in vita sono sconvolgenti e incredibili. Quando studiavo medicina ero affascinato da ogni disciplina, ma soprattutto dalla chirurgia, pensavo che sarei diventato chirurgo. Quando arrivai in America per la specializzazione, però, scoprii che I corsi quinquennali di chirurgia negli ospedali dove potevo essere ammesso in quanto medico straniero erano organizzati “a piramide”, ovvero su dieci studenti soltanto tre potevano arrivare al quinto anno e ottenere quindi la qualifica di chirurgo. Molti corsi di chirurgia erano noti per accogliere medici stranieri come me soltanto per buttarli poi fuori ed erano pochi quelli che riuscivano ad accedere all'ultimo anno. Ho trasferito la mia esperienza sul protagonista Marion, che riuscirà a realizzare il suo sogno, a differenza di me. Io non volevo correre il rischio di sprecare degli anni perché avevo già interrotto gli studi di medicina in Etiopia e li avevo poi conclusi in India. Per fortuna mi piaceva molto la medicina interna e non mi sono mai pentito della mia decisione. I miei amici chirurghi mi fanno il favore di lasciarmi assistere e di origliare i consulti internazionali in cui si discutono casi con professionisti di tutto il mondo e mi aiutano a comprendere il loro pensiero. Voglio aggiungere che la medicina è l'ambientazione perfetta per un romanzo, perché che cos'è la medicina se non la vita 2.0? Con questo voglio dire che nella malattia abbiamo la vita al suo estremo, un luogo dove le convinzioni e le motivazioni umane sono del tutto chiare, perché cade ogni finzione e ogni impostura».
Nel suo romanzo è la cura della persona a prevalere sulla “terapia”: per i suoi protagonisti la medicina da scienza diventa arte?
«Proprio così. La medicina è davvero un'“arte“ per questo motivo: non ci occupiamo di un cuore, un fegato o un rene ma di una persona nella sua interezza, un individuo unico che affronta qualcosa di inaspettato e pauroso, con la morte che incombe sempre nelle vicinanze. Le nostre conoscenze e la nostra scienza ci aiutano a comprendere quello che non va dal punto di vista fisico, ma questo non dovrebbe farci perdere di vista l'essere umano vulnerabile che abbiamo davanti. Come disse William Osler, un influente medico americano (morto nel 1917) che ha avuto un grande impatto sulla medicina americana: “È molto più importante sapere quale tipo di paziente ha una certa malattia piuttosto che quale tipo di malattia ha un certo paziente”. E sì, le persone malate hanno bisogno di sentire che ci prendiamo cura di loro. C'è un'altra famosa citazione di un medico americano, sempre di 100 anni fa, che si chiamava Francis Peabody: “Il segreto per curare un paziente è aver cura di lui”. Sulla parete della mia camera da letto è appesa la frase attribuita a Paracelso, del XVI secolo: Questo è il mio voto: amare gli ammalati, ciascuno di loro, più che se ne andasse del mio stesso corpo. Per me questo aspetto della cura è fondamentale – mi dà ispirazione e cerco di trasmetterlo agli studenti e ai tirocinanti. La medicina dovrebbe essere definita “il ministero della salute”, è un'espressione che amo perché parla dell'aspetto della medicina simile al buon Samaritano, parla di una vocazione. Sono convinto che nella nostra opera ci sia un elemento pastorale, dato che dobbiamo occuparci del corpo che è inscindibile dallo spirito. Credo che la medicina occidentale e il fascino che esercitano su di noi i progressi della scienza e delle terapie più potenti e innovative (che sono effettivamente straordinarie e a volte quasi miracolose) rischino di farci trascurare questo aspetto dell'essere medici. Eppure è l'unico aspetto immutato fin dall'antichità».
Nei suoi romanzi, i protagonisti hanno grandi obiettivi, per raggiungere i quali sono disposti a superare ogni difficoltà, è questa “epicità” il segreto del suo successo?
«Raramente penso ai miei romanzi in termini di “temi” o “obiettivi primari” e non mi concentro su altri scopi che non siano questo: una bella storia, raccontata bene. Credo che un romanzo, quando funziona, sia quello che Camus definì “la grande bugia che dice la verità”. E credo che, perché il lettore possa trovare echi della propria vita nel romanzo, perché possa trovarlo istruttivo e senta una risonanza, la storia debba avere gli elementi dell'amore, dell'amicizia, della famiglia, di personaggi che sembrano vivi e che affrontano le difficoltà di ogni essere umano, ovvero il successo, il fallimento, gli sbagli, la ricerca della redenzione e la fatica della fede. La vita ci mostra così tanti tipi diversi di persone, e tutte hanno modi diversi di stare al mondo. Questo teatro umano è ciò che mi piace rappresentare. Come esseri umani impariamo quasi esclusivamente dagli errori. E troppo spesso riconosciamo l'amore troppo tardi per possederlo o per esprimerlo».
Nella narrativa contemporanea spesso le emozioni appaiono transitorie e inaffidabili, mentre lei non teme di rappresentare sentimenti profondi e assoluti, che vanno perfino oltre la morte, raccontando scene tanto commoventi che il lettore non può trattenere le lacrime. Anche lei si commuoveva scrivendo?
«In effetti credo di essere un po' insofferente nei riguardi di romanzi che sono “spaccati di vita”, dove non succede granché oppure si dà troppa importanza a eventi poco rilevanti. Naturalmente esistono delle eccezioni. Per quanto mi riguarda, però, mi attraggono i grandi romanzi epici che mi commuovono, che mi danno un insegnamento. Le scene a cui lei allude mi hanno incredibilmente commosso mentre le scrivevo, piangevo ogni volta che le rileggevo, e sappia che le ho revisionate centinaia di volte. Io voglio che ciò che leggo mi commuova – non voglio il pathos fine a se stesso, voglio un autentico coinvolgimento. Di solito (ma non sempre) quando mi commuovo, si commuove anche il lettore. Credo anche che nella nostra società si tratti la morte come se non esistesse, mentre invece è sia comune che inevitabile. Quindi, quando avviene, sembra che le persone si stupiscano, sia nella vita reale che nel mondo della fiction. Mi dicono che nei mei libri ci sono tante morti, e forse è vero, ma non più di quanto accadesse realmente nell'epoca che descrivo. È proprio la morte, in realtà, che rende la vita così intensa, perché sappiamo che il nostro tempo su questa terra è fuggevole e quindi bellissimo. Se le rose vivessero per sempre, sarebbero erbacce infestanti! Sono belle perché sono effimere»
È stato importante per lei ambientare il romanzo nella “sua” Etiopia?
«Credo che la geografia abbia la stessa importanza di un personaggio. La geografia diventa un personaggio. La mia storia ambientata a Roma o a Napoli sarebbe una storia del tutto diversa. Dicono anche che uno scrittore dovrebbe parlare di “quello che conosce”. Quindi per me è stato naturale parlare del luogo dove sono nato – parlo ancora correntemente la lingua, l'amarico – e che mi ha influenzato profondamente; ma è anche un luogo di dolore perché fui costretto a fuggire senza concludere gli studi di medicina per lo scoppio della guerra civile. È stato l'evento formativo della mia vita. Ho fatto molte ricerche e sono ritornato più volte, e a volte è stato doloroso, come per uno stress post traumatico. Molti dei miei ex compagni di studi erano stati uccisi, oppure avevano disertato per unirsi agli Eritrei o ai monarchici contro I dittatori militari che governavano dopo aver deposto l'imperatore Hailé Selassié. Mi dicono che alcuni sono stati torturati e assassinati. Uno dei miei compagni più giovani divenne Primo Ministro dell'Etiopia (Meles Zenawi) e una volta sono andato a intervistarlo per la rivista TALK di Tina Brown. Dato che gran parte della storia narrata nel romanzo si svolge nel periodo prima che io nascessi o quando ero molto piccolo, ho trovato ottime fonti, diversi racconti di autori italiani, e qualcuno in inglese».
Come nel precedente Il patto dell’acqua, anche in questo romanzo ci sono personaggi indiani originari del Kerala, dove viene professato il cristianesimo portato dall’apostolo san Tommaso, vorrebbe parlarcene?
«La mia famiglia proviene da una comunità relativamente ristretta (ristretta per gli standard indiani, supera comunque i 6 milioni) del Kerala, nell'India del Sud. Noi crediamo che la nostra religione cristiana sia approdata sulle coste del Kerala quando san Tommaso apostolo arrivò nel 52 d.C. Questo dato è coerente con la secolare tradizione del commercio delle spezie, la nostra terra viene chiamata "la costa delle spezie”. San Tommaso convertì alcune famiglie locali, che poi si imparentarono fra loro. Alla fine venne ucciso a Madras, in un luogo chiamato Monte di san Tommaso, e i suoi resti sono sepolti nella cattedrale di Santhome. Il nostro è un cristianesimo ortodosso, simile a quello greco e armeno, e le funzioni sono in siriaco – un'antica lingua indiana. Quando, nel Quattrocento, Vasco de Gama arrivò in India, cercava l'origine delle spezie e da allora eliminò I marinai arabi che per secoli avevano acquistato le spezie in Kerala per venderle a Venezia, Genova e altrove, accumulando enormi fortune. Ufficialmente De Gama era venuto per “convertire i pagani al Cristianesimo". Quando scoprì che il Cristianesimo lo aveva preceduto di quasi tredici secoli ne restò sconvolto! L'Etiopia ha anche ascendenze bibliche, grazie alla Regina di Saba: si crede che i resti dell'Arca dell'Alleanza si trovino in una piccola chiesa in Etiopia».
Come mai i suoi genitori si trasferirono in Etiopia?
«Quando l'imperatore Hailé Selassié venne in visita ufficiale in India, volle vedere le prime chiese di san Tommaso, perché conosceva la tradizione. Si dice che fosse talmente colpito nel vedere centinaia di alunni andare a scuola al mattino, in divisa, ben lavati e pettinati, che assunse la maggior parte degli insegnanti da quella comunità cristiana per fondare nuove scuole in Etiopia. I miei genitori vennero assunti separatamente e si conobbero in Etiopia, dove poi si sposarono. Ad Addis Abeba avevamo una comunità piuttosto numerosa di cristiani indiani, tanto da avere i nostri sacerdoti, che insegnavano al college teologico. L'imperatore aveva una magnifica cattedrale per pregare, la Cattedrale della Trinità. Dopo la sua lunga funzione della domenica mattina, avevamo il permesso di celebrare la nostra in quel luogo».
Come Marion, lei ha origini indiane, è nato in Etiopia e si è trasferito in America: come vive l’appartenenza a tre mondi?
«Lo confesso, è difficile sentire di appartenere a un luogo preciso. Sono nato in Etiopia, ho concluso gli studi di medicina in India e vivo in America dal 1980. Ho preso la cittadinanza molto presto, mi pare nel 1987, e ne vado fiero. Ho raccontato la mia propria esperienza nel romanzo, attribuendola a Marion. L'America usa il sistema di specializzazione (internship) per la formazione dei medici come mezzo economico per garantire l'assistenza in posti dove molti medici americani non sceglierebbero di lavorare. Finora però l'America non produce abbastanza specializzandi per riempire tutte le posizioni necessarie. Quindi ogni anno senza l'apporto dei medici stranieri molti ospedali dei quartieri poveri sarebbero nei guai. Ma la formazione in sé è stata fantastica. E se lavori sodo e ti comporti bene, il futuro dopo la specializzazione è abbastanza egualitario. Ho vissuto in molti posti diversi degli Stati Uniti: Tennessee, Boston, Iowa, San Antonio in Texas ed El Paso in Texas, e adesso da quindici anni – il periodo più lungo nello stesso posto – a Palo Alto e a Stanford. Sono felice, eppure da un certo punto di vista sento che non potrò mai avere davvero una “mia città”. D'altro canto non è negativo per uno scrittore essere sempre un outsider: puoi sempre osservare le cose e confrontarle con altri luoghi, altre culture».