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Tra etica ed estetica. Se l'abitudine è la nuova malattia mortale

Raul Gabriel mercoledì 19 giugno 2019

(foto Hermann Traub da Pixabay)

Abitudine. Croce e delizia degli strumenti a nostra disposizione per la gestione della infinita varietà di compiti che ogni essere vivente deve quotidianamente affrontare. L’abitudine ha un doppio registro. Da un lato crea dei binari, memorizzati nei nuclei della base, una sorta di cuore di una cipolla posta al centro del cervello in ogni vertebrato, uomo compreso, i cui strati via via più esterni corrispondono ad acquisizioni cognitive progressivamente più recenti e complesse. Qui risiedono le attività involontarie, e relativamente di recente, negli anni novanta, si è scoperto che i nuclei o gangli della base sono coinvolti anche nell’apprendimento delle abitudini.

Questi binari sono essenziali, perché risparmiano al cervello una enorme e costante rielaborazione di attività che si ripetono, registrando concatenazioni di eventi cognitivi che ogni individuo applica automaticamente, una volta apprese. Per la loro stessa funzione di economizzare sul dispendio di energia cerebrale, tendono a escludere l’implementazione attiva ad opera del cervello di un individuo. I compiti, e le abitudini che ne derivano, possono essere soggetti a modifiche, ma senza un intervento attivo, dietro opportuna stimolazione, lo schema registrato tende ad avere il sopravvento.

La cosa può avere risvolti imprevisti anche nel caso della vita animale, perché nelle attività di base dell’esistenza la variazione improvvisa della realtà può risultare fatale se non si apportano modifiche al comportamento. Se al termine del percorso della cavia si nasconde un gatto piuttosto che del cibo i risultati possono essere sensibilmente diversi a parità di reazione. Ma per l’uomo, la delega dei propri comportamenti a schemi codificati può comportare una gamma di possibili effetti negativi ancora più impattante.

Il fatto è che tendiamo a registrare abitudini anche sul piano dell’etica e dell’estetica, e questo collide fortemente con la differente prospettiva evoluzionistica che caratterizza queste aree a fronte delle semplici azioni di sopravvivenza, nutrizione e cosi via. Sul piano intellettuale e spirituale l’abitudine è sempre mortale. Perché a differenza della nostra parte di attività cerebrale animale, quella inerente il significato, la sostanza dei gesti, non va risparmiata. Anzi va messa costantemente in moto, tenuta inquieta e mai fissata in una struttura acquisita una volta per sempre, data la sua natura ambigua e dinamica.

Anche le abitudini come guidare, fare colazione, ritornare a casa e cosi via, possono essere soggette a variazioni brusche, imposte dagli eventi mutabili. Ma percentualmente la loro applicazione rimane quella standard, seppure con occasionali variazioni. Per quanto riguarda la dimensione etico-spirituale è vero il contrario. La trasformazione dei significati in schemi automatici da relegare alla dittatura delle abitudini, diviene sintomo di acriticità, insensibilità, perdita di empatia, e predisposizione a farsi servo o padrone, piuttosto che uomo alla ricerca di un compimento che vada oltre gli automatismi della quotidiano.

Il rischio è forte. La tendenza ad evitare di mettersi in discussione per consolidarsi e sclerotizzarsi in prassi ripetute e sempre meno partecipate, è scritta nelle pastoie fisiologiche del nostro cervello, e gradualmente diviene il metro di giudizio con cui affrontiamo la realtà.

Al novero delle abitudini non sfugge nulla, anche le pratiche sulla carta più nobili. Non sfugge la solidarietà, l’altruismo, la meditazione, le preghiere, il fare politica e ogni pratica rituale, anche la più rarefatta. Può essere abitudine portare il ramo d’ulivo per chi ha la guerra dentro, distribuire elemosine senza una vera partecipazione umana così come partecipare in modalità automatica a riti politici e religiosi. Su questo terreno è molto difficile intervenire. Può farlo ognuno nel suo intimo, al prezzo di rinnegare una idea di tranquillità e rispettabilità che hanno più a che fare con l’ipocrisia e l’istinto goal directed dei ratti in laboratorio che memorizzano il percorso perché sanno di trovare la ricompensa basica e atavica, nel loro caso, giusto obiettivo.

Nel caso di un essere umano l’abitudine dell’etica significa la rinuncia ad evolversi, abdicando alla tentazione biologica del nucleo di base, per cui lavarsi i denti finisce per avere lo stesso impatto partecipativo di vedere, anche se via schermo, uomini, donne e bambini che scompaiono tra le onde cui hanno affidato le loro ultime speranze. Quando essa comincia a regolare anche l’etica e l’estetica ne derivano tanti effetti negativi, fra cui la caduta del senso critico.