Calcio. Dino Zoff, gli 80 anni del capitano d'Italia
L'ex portiere della Nazionale italiana e della Juventus Dino Zoff
Parla il portierone azzurro che il 28 febbraio fa 80 anni: «In casa mi hanno insegnato a lavorare bene, in campo mai mancato di rispetto a nessuno» Dino Zoff, ottant’anni (il 28 febbraio) e non sentirli... verrebbe da dire come un vecchio spot di quando il portierone di anni ne aveva 40, ed era campione del mondo con la Nazionale di Enzo Bearzot.
Dino, tu sei lezione, insegnamento, valore. Ma da bambino volevi giocare a calcio e fare il portiere?
Non so se volevo, lo facevo. Da bambino, ero lo “scemo del villaggio” perché da piccolissimo mi buttavo. I più grandi ne approfittavano per farmi tuffare, però allora non esistevano i sogni di dire: da grande farò o non farò… Ai miei tempi non c’era ancora la televisione, si giocava e c’era il presente e il futuro era qualcosa di troppo lontano per pensare a cose tipo la Serie A. Non si poteva pensare così in alto.
A casa la colazione e il pranzo di un piccolo-grande Dino che doveva diventare «alto e forte ». Raccontaci come tua nonna andava giù di uova.
Ero un po’ delicato nel mangiare, non mi piacevano tante cose e non c’era tantissimo una volta nelle dispense di casa. Allora la nonna ha cominciato con le uova e per alcuni anni viaggiavo con due o tre uova al giorno. Energia ce n’era e si consumava tanto. La gioventù dei miei tempi, è brutto parlare dei “miei tempi”, però nei paesi, c’erano spazi e possibilità di gioco. Non esisteva mica la scuola calcio. Si giocava a pallone tra amici, anche per sei ore di fila, da fine scuola fino a cena.
E a casa che dicevano?
Mio padre, da buon friulano diceva sempre «bisogna lavorare bene. Non ha importanza che lavoro fai, l’importante è lavorare bene». Poi non si parlava molto, certe cose erano “scritte” dappertutto, anche se non erano scritte. Per dire che non c’erano scuse su niente. Quando giocavo in Serie A, presi un gol e mio padre mi disse: «Ma come mai quel gol lì?». Io risposi: non mi aspettavo che tirasse. E lui secco: «Ma perché, cosa fai, Il farmacista? Se non te lo aspetti te che fai il portiere...». Aveva ragione, lavorare bene.
I tuoi genitori quando hanno capito che il calcio era il tuo mestiere che cosa dicevano?
Le cose inizialmente non andavano tanto bene, calcisticamente parlando, ma poi ho intrapreso la strada giusta. Ogni tanto i miei mi seguivano, ma sempre con un certo distacco. Non c’era la pressione di adesso, non esistevano i procuratori e l’ingaggio lo gestivi personalmente con il presidente. Quando dall’Udinese son passato al Mantova, mio padre disse: «Vai da solo Dino, impara a vivere». Lui aveva esperienza di tanti anni di guerra. La mia mamma era perfetta in tutto, molto dolce, anche se di poche coccole, aveva tanto da lavorare. Si, certamente erano orgogliosi del figlio calciatore, così come in paese erano felici quando sono diventato famoso, ma i miei erano sempre preoccupati che dovessi fare le cose per bene. Era la prima regola. Quando sei partito non ti ha fermato più nessuno. Beh sì. Da Udine, dove mi ero fatto male, sono andato a Mantova, dove ho trovato anche mia moglie. Poi Napoli e infine la mia seconda casa, la Juventus...
Cosa pensi del mondo di oggi e dei tanti cambiamenti?
Giusto che il mondo cambi, ma molte volte vengono meno quelle cose importanti che dovrebbero valere per tutte le generazioni: comportamenti, educazione, attenzione per il prossimo, dignità. Questi sono valori che dovrebbero esserci sempre.
Rispetto e dignità, specie nei confronti dell’avversario, quanto contano oggi nel calcio?
Fondamentali. Per esempio, a me capitava di non esultare mai oltre il limite e lo facevo solo per rispetto degli altri. Oggi invece uno fa gol, si fa un balletto, ben studiato prima e questo vuol dire che non c’è rispetto per l’avversario. Giusta l’esultanza, ma se mi fai un balletto davanti alla faccia allora posso darti anche un calcio nel sedere – sorride – . La simulazione poi è insopportabile. A volte capita il calciatore che si butta giù per guadagnarsi un rigore o un fallo. A me vedere certe scene mi fa uscire di testa!
Zoff capitano in tutto e per tutto. Tra le tante imprese straordinarie c’è quella mitica parata sulla linea di porta con il Brasile (colpo di testa di Oscar) al Mundial di Spagna ’82. Ci racconti cosa hai provato in quegli attimi...
Sono quegli istanti decisivi per la carriera di un portiere. Era una parata difficile, avevo avversari davanti e non potevo respingere... I brasiliani che esultavano per il gol, io non vedevo l’arbitro che per fortuna aveva visto giusto... palla sulla linea. Sono stati tre secondi terribili che hanno cambiato la storia della Nazionale e anche la mia.
Quanto era speciale Enzo Bearzot?
Era un comandante vero e un comandante vero fa andare le navi sulla rotta giusta. Enzo Bearzot era un uomo di cultura anche se ingiustamente sbeffeggiato, aveva tutte le qualità migliori e i media come spesso accade non sempre riescono a descrivere a fondo la vera essenza di un uomo.
Tra voi parlavate in friulano?
Si, certo. Per me il “Vecio” Bearzot è stato un uomo fondamentale. Si è giocato la vita per il sottoscritto. Venivo dal Mundial d’Argentina del ’78 con tante critiche e a lui gli hanno addossato anche quelle che mi riguardavano. Mi sono sentito responsabile, e perciò vincere il Mundial di Spagna è stato anche un po’ un risarcimento personale per la grande fiducia che Bearzot aveva sempre riposto nella mia persona.
Insieme da sempre con tua moglie Anna. Ma chi indossa la fascia da capitano in casa Zoff?
Da sempre abbiamo i nostri ruoli ben precisi e continuiamo ad esercitarli. Beh, comunque per me a casa è difficile fare il capitano.
Forse perché con noi donne è difficile essere capitano titolare?
No – sorride – ma avete una forza importante, e lo dico con sincerità. È così e va anche bene.
Che nonno è nonno Dino?
Cerco di essere un po’ più. Non saprei come descrivermi, provo a volte con qualche smanceria in più rispetto al genitore che sono stato, ma non mi viene bene.
Non ti vengono bene le smancerie? No, no, però si vede, quindi mi apprezzano così come sono... Del resto sono 80 anni che sono sempre me stesso.