All Blacks. L'ultimo match del campione di rugby: perdente ma felice (e con figlio)
Il campione di rugby Aaron
Chi ama la pratica sportiva dovrebbe sinceramente ringraziare il 35enne Aaron Smith, campione di rugby, giunto ieri alla sua 125esima e ultima partita con la casacca nera dei mitici All Blacks. Grazie a lui, noi tutti abbiamo ora una immagine straordinaria per sintetizzare, senza i fiumi di retorica a cui si ricorre di solito, cosa è talvolta, cosa dovrebbe essere sempre e cosa invece spesso purtroppo non è lo sport.
Già perché Smith - in uno scatto-simbolo diffuso dopo l’incredibile finale mondiale persa dalla nazionale neozelandese per un solo punto, 12 a 11 - mostra al suo bambino la medaglia d’argento appena ricevuta, reggendola con fierezza nel palmo della mano. Entrambi sorridono, felici. Il padre, mediano di mischia degli Highlanders, un metro e 71 centimetri per 83 chili di fosforo e muscoli, lo è perché ha coronato una carriera leggendaria (è stato campione del mondo nel 2015) con l’ennesima prestazione di livello, guidando la danza della haka all’inizio e poi giocando come sa fare.
E il figlioletto lo è forse perché la felicità, a quell’età, la si respira anche attraverso la serenità e l'amore degli adulti. Chissà, magari più tardi Aaron avrà raccontato al suo cucciolo di averci provato, con ogni fibra del suo corpo, a vincere la medaglia d’oro. E di non esserci riuscito perché anche gli avversari, i coriacei Springboks sudafricani, hanno fatto lo stesso e, stavolta, sono stati più bravi. Ma non è nemmeno detto, perché – come dicevamo – certi gesti spiegano più delle parole. E spazzano via, almeno per un giorno, le desolanti immagini di tanti momenti bui – abbiamo ancora negli occhi i calciatori inglesi a Wembley, dopo la finale europea persa con l’Italia, sfilarsi sdegnati la silver medal - che disonorano lo sport.
Ora, sarebbe facile dire che il rugby ha tirato fuori dal suo scrigno di lealtà e rispetto, per consegnarcela, l’ennesima lezione di cavalleresco fair play. Non è del tutto così, perché anche in altre discipline, e perfino nel calcio, ci sono atleti capaci di atteggiamenti simili: pensiamo a ‘Mbappe nella serata del mondiale perso contro l’Argentina. Stavolta, la foto e i sorrisi di Aaron e del suo bambino ci dicono di più: ci dicono che è tempo di mandare in soffitta, a ogni livello, amatoriale e professionistico, quella malsana apologia del vincitore e della vittoria, che esalta i trionfi e non illumina mai il coraggio e l’abnegazione dello sconfitto.
Ormai, perfino nello sport giovanile, che dovrebbe essere la culla degli atleti del futuro, troppi allenatori e troppi genitori dipingono chi esce dal campo senza vincere solo come un misero "perdente", quasi un fallito da sbeffeggiare. Dimenticando colpevolmente una delle prime, elementari verità di ogni sport e di qualsiasi competizione: senza l'impegno degli avversari, la vittoria, nessuna vittoria avrebbe alcun merito né alcun sapore.
Nel calcio poi, c’è un fuorviante aforisma che circola da decenni, citato spesso da quel monumento della Juventus che fu Giampiero Boniperti, ma in realtà coniato da un coach di football americano di metà Novecento, Henry Russell “Red” Sanders. L'originaria versione anglosassone recita “Winning isn’t everything, it’s the only thing”, in casa Juve poi tradotto nel categorico “Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta”.
Ebbene, ai suoi ragazzi Sanders spiegava anche altro: i trofei non sono tutto, ammoniva, ciò che conta è l’impegno, la volontà, la tenacia, il sacrificio, the “will to win”. Proprio quell'impegno e quel sudore che Aaron ha speso in campo fino all’ulltima stilla. E che anche dopo una finale persa sul filo di lana, mentre tanti altri starebbero ancora a recriminare (l’arbitraggio, i falli degli avversari, la malasorte... ) lo ha reso fiero di fronte a suo figlio del risultato ottenuto: il miglior secondo posto della sua vita.