La 17 ª Biennale. A Venezia la politica dell'architettura
L’allestimento nell’Arsenale
«Come vivremo insieme?», “How will live together?”. È la domanda a cui la 17ª Biennale Architettura cerca non una ma molte risposte possibili. In una Venezia che comincia lentamente a ripopolarsi, la mostra è il primo grande evento internazionale ad aprire in presenza nel 2021 dopo essere stato rinviato l’anno scorso. La domanda, per quanto attualissima nel tempo del distanziamento ex lege, mentre il desiderio di “tornare alla normalità” sembra cancellare il “niente sarà più come prima”, precede dunque la pandemia ed è strutturale alla società globalizzata che ha prodotto la pandemia stessa. Le Biennali ci hanno abituato a titolo molto rotondi in bocca ma che alla prova si rivelano ombrelli giganteschi in cui può rientrare tutto e il suo contrario (esemplare su tutti il Common ground della mostra di architettura di Chipperfield, un “terreno comune” solo in apparenza prossimo al tema di quella attuale). Non è il caso, o comunque in modo assai minore, di “How will we live together?”.
Il padiglione del Messico - -
Ultima dell’era Baratta (fu lui a scegliere il direttore nel 2018) e prima della presidenza di Roberto Cicutto, è anche la prima dopo diverso tempo a essere curata non da un architetto “di grido” ma da una figura in cui appare predominante l’aspetto critico. Hashim Sarkis, iracheno, preside della School of Architecture and Planning del Mit di Boston, ha impostato il percorso su una logica progressiva e programmatica molto compatta, che da una parte muove da una forte componente teorica verso una messa alla prova della pratica per ritornare infine alla riflessione teorica, dall’altra si sposta costantemente di scala, dalle tipologie abitative alla dimensione urbana e macroterritoriale e agli ecosistemi via via verso quella planetaria e oltre, dato che si contemplano i progetti di colonizzazione lunare (in un certo senso paradossali, dato che la decolonizzazione è uno dei tratti portanti di questo tempo e dunque anche di questa Biennale). Quasi assenti le archistar, a parte figure più di nicchia come Manuel Aires Mateus o Alejandro Aravena (alla cui Biennale, altrettanto compatta, questa è piuttosto affine); i partecipanti – 112 da 46 Paesi diversi – hanno in media 40 anni e una buona fetta è legata al mondo dell’università e della ricerca. Nella logica del “ together”, insieme, forte è la presenza di soggetti esterni al sistema dell’architettura come sociologi, economisti, filosofi, fotografi e artisti come Tomás Saraceno. «In un contesto di divisioni politiche acutizzate e disuguaglianze economiche crescenti» secondo Sarkis «abbiamo bisogno di un nuovo contratto spaziale», in una evidente equiparazione di spazio e società, qualcosa di non molto lontano dall’etimologia di “politica”, ossia “arte/tecnica della città”. Eppure Sarkis pone la sua domanda «agli architetti perché non siamo più soddisfatti delle risposte offerte oggi dai politici [...], perché hanno la grande abilità di attirare diversi attori ed esperti nel processo di progettazione e costruzione».
Il padiglione centrale dei Giardini - -
C’è un aspetto problematico in questo. C’è stato e c’è un eccesso di “fede” nell’architettura. Abbiamo tutti sotto gli occhi i problemi generati dalle velleità di architetti e urbanisti dei decenni passati e non solo per questioni legate all’ideologia o all’ambizione utopica, che è il vero peccato originale dell’architettura. Lucius Burckhardt ha bene evidenziato come una parte essenziale del problema sta nella fiducia quasi religiosa nella pianificazione e nelle capacità semidivine dell’architetto, a cui si demanda la risoluzione di problemi che esorbitano dalle sue competenze. Il sociologo e urbanista svizzero osservava come il buon esito sta nella triangolazione di architetto, committente e fruitore: «Riattivare sia il committente sia l’utilizzatore – scriveva Burckhardt – è una cosa possibile: non nel senso che ora vogliamo siano loro a produrre programmi deterministici e determinati, ma nel senso che anch’essi possano concorrere a definire soltanto quel che basta, perché chi prenderà parte al processo in futuro abbia anch’egli lo spazio per esprimere la propria opinione in merito». In mostra e in diversi tra i padiglioni nazionali che hanno accettato di ragionare sul titolo della mostra principale, sono molti i progetti che lavorano sul circolo virtuoso architettura/governance/ pubblico e ciò fa sì che questa edizione, in cui non mancano per altro le installazioni spettacolari, sia complessivamente la migliore degli ultimi anni. Ogni stagione ha i suoi refrain, e nei testi troviamo due espressioni ricorrenti: “architettura come processo” e “spazi di negoziazione”. Le dinamiche di pubblico e privato (molto interessanti ad esempio le ricerche sul co-housing) sono centrali così come gli equilibri di un ecosistema sociale e ambientale.
L’installazione di Tomás Saraceno ai Giardini - -
L’architettura appare soprattutto come strumento – di racconto, analisi, di gestione, di progetto – capace di affrontare la complessità perché flessibile e articolato, ma soprattutto aperto agli impulsi e agli insegnamenti che arrivano dal basso, in una logica partecipativa e inclusiva. Anche per questo sono assenti edifici iconici ma sono numerosi i progetti forse meno vistosi ma decisamente complessi soprattutto sotto il profilo sociale e quelli in cui la ricerca tecnologica è strutturale e non applicativa. Cambiamenti climatici, migrazioni, rifugiati, cooperazione ma anche riconciliazione sono altri importanti refrain. Non erano certo temi assenti in altre Biennali, ma in questa assumono davvero un valore strutturale e organico. Le comunità emergenti e le periferie di ogni genere sono una costante, così come costante è l’invito a superare la tradizione moderna di pensare i confini di ogni tipo in un sistema spaziale stravolto nelle sue funzioni e scansioni dalla rivoluzione digitale. Non sarà sfuggito che questa Mostra internazionale di architettura (che è soprattutto una mostra di “politica”) ha come oggetto la stretta relazione a livello planetario tra crisi ambientale e crisi sociale, ossia quella ecologia integrale al centro della Laudato si’. Ma dell’enciclica di papa Francesco non c’è riscontro nel discorso, oltremodo ampio e articolato, dispiegato dalla Biennale, così come non è contemplata la questione religiosa, tema non indifferente nelle dinamiche comunitarie anche sotto il profilo spaziale. Assenze che, sia detto senza vittimismo, appaiono soprattutto come un segnale e meritano forse una riflessione sulla presenza e incidenza nel dibattito culturale globale.