Il libro. Lucio Dalla, 50 anni fa la nascita di Gesubambino
Lucio Dalla in uno scatto del luglio 2008
Sono passati 50 anni esatti dall’exploit di Lucio Dalla a Sanremo. Davanti a lui Nicola Di Bari con Nada ( Il cuore è uno zingaro) e i Ricchi e Poveri con José Feliciano ( Che sarà), ma è il terzo posto del cantante bolognese l’evento del Festival. Quel brano ripescato in extremis, inizialmente intitolato Gesubambino e censurato anche nel testo aveva conquistato tutti, pubblico e critica, con la storia di una sedicenne e del suo “figlio della guerra” orfano di padre. A raccontare genesi, segreti, aneddoti e retroscena relativi a quella canzone e al sodalizio artistico tra Dalla e la paroliera e storica dell’illustrazione Paola Pallottino (otto canzoni pubblicate, tra cui Il gigante e la bambina, e un brano inedito che viene svelato e raccontato per la prima volta) è ora il libro di Massimo Iondini Dice che era un bell’uomo - Il genio di Dalla e Pallottino (edizioni Minerva - Bologna, pagine 178, euro 15,00). Oltre alle testimonianze della stessa Pallottino, di Pupi Avati (autore della prefazione che anticipiamo qui sotto) e di Gianni Morandi (autore dell’introduzione), Iondini si è avvalso, tra le altre, delle voci esclusive di Gino Paoli, Renzo Arbore, Ron, Angelo Branduardi e Umberto “Tobia” Righi, per mezzo secolo manager e padre putativo di Dalla. A ideale conclusione del libro, un toccante scritto dello stesso Dalla, una sorta di testamento spirituale vergato nell’estate 2010, che qui anticipiamo in esclusiva in questo articolo.
Lucio Dalla e Paola Pallottino - Archivio fotografico storico "Fotowall" di Walter Breveglieri - Edizioni Minerva
La prefazione di Pupi Avati
L'ho detto più volte, ma giova ricordarlo per chi non lo sapesse ancora, e qui in queste pagine dopo aver letto il libro dedicato alla collaborazione artistica tra Dalla e Paola Pallottino: Lucio è stato la causa principale del mio “fallimento musicale”. Il confronto con quel “mostro” di bravura che è stato, ha portato alla mia irrevocabile decisione di chiudere anzitempo con la musica. Ma un momento, la mia storia con Lucio è cominciata tanti anni prima di quel “trauma” mai sanato.
Pupi Avati con Lucio Dalla - .
La prima volta che l’ho visto era un bambino di 8 anni ed era già una stella delle sale parrocchiali di Bologna dove si esibiva sul palcoscenico. Saliva su elegantissimo, vestito con un frac e si accompagnava con una piccola fisarmonica. Non ci crederete, ma Lucio Dalla era un bambino bellissimo, che sapeva cantare, recitare, ballare e suonare benissimo. Era uno di quei bambini prodigio del cinema americano, uno Shirley Temple al maschile. Poi lo persi di vista per anni... Lo rividi molto dopo quando ero entrato fisso nella mitica Rheno Jazz Band. Una formazione talmente affermata che a volte per divertimento andavamo ad ascoltare quelle “bande” di ragazzini che ci facevano il verso provando ad imitarci. In una di queste c’era Lucio che, come me, suonava il clarinetto. Ma la cosa che mi colpì nel rivederlo, non era per come suonava – allora a dire il vero con una certa approssimazione –, ma il suo incredibile cambiamento fisico: non era più quel bel bambino di un tempo, non era cresciuto in altezza ed era piuttosto grassottello. Insomma da cigno si era trasformato in un brutto anatroccolo.
Quando il nostro capo orchestra, per simpatia o per chissà quale ragione, lo ingaggiò per entrare nella nostra band, la cosa non mi preoccupò affatto. Il jazz, si sa, è molto competitivo, ogni jam-session è come un incontro di boxe in cui nessuno ci sta a perdere, e io in quel momento mi sentivo un peso massimo rispetto a quel nanerottolo sgraziato. Potevo mandarlo ko quando volevo.
Partimmo per la tournée con due clarinetti, il mio e il suo che era diligente e rispettoso nel suo ruolo di “secondo”. Poi improvvisamente, a Francoforte, le cose cambiarono e, per me, in peggio. Lucio fece il suo primo assolo e in un attimo ho provato i brividi gelidi del pericolo mortale, impossibile da evitare. Lo rifece ancora, quell’assolo, e fu ancora più bravo. Il bello era che ogni sera Lucio migliorava sempre più. Piccolo com’era, suscitava simpatia in tutti, sapeva ingraziarsi il pubblico da artista consumato, così che alla fine di ogni concerto poteva bearsi del suo successo personale. In me montava un’invidia pari a quella che deve aver provato Salieri al cospetto del genio di Mozart. Lo ammetto: sì, io sono invidioso per natura, soprattutto nei confronti di quelli che fanno cose grandi e migliori delle mie. E Lucio con il clarinetto faceva cose che io non sapevo e non avrei mai saputo fare. Gli veniva naturale, come ad ogni talento che si rispetti: senza aver studiato, avendo ascoltato pochi dischi jazz rispetto al sottoscritto e suonando uno strumento di qualità nettamente inferiore al mio.
La fine per me e il grande inizio per Dalla fu quando una sera al Whisky a Go Go venne ad ascoltarci Gino Paoli, che era già una star. Gino si sedette in fondo al locale e tra una sigaretta e l’altra seguì con molta attenzione il concerto. Noi alla fine eravamo eccitatissimi e quando avanzò verso il palco per venirci a salutare... Rivedo quella scena come se fosse ora. Paoli si avvicina e va diretto verso Lucio per congratularsi per come aveva suonato, ma soprattutto per come aveva cantato lo scat. Lo avrebbe portato a Roma (a suonare con i Flippers di Edoardo Vianello) e Gino Paoli stesso produsse il suo primo disco.
La notizia che Lucio Dalla si buttava nella musica pop e lasciava il jazz avrei potuto leggerla come la mia salvezza. Ma io il mio match contro di lui l’avevo perso e non mi restava che il ritiro, dal jazz. Per questo l’ho odiato per anni, pur seguendolo a distanza e informandomi sui suoi successi e gli insuccessi, che ci sono stati. Qui, nel libro di Massimo Iondini, ritrovo quella stagione ancora incerta ma molto creativa con Paola Pallottino, che non ho mai avuto la fortuna di conoscere. Lucio si è servito al meglio della Pallottino, ci sono dei testi poetici straordinari all’interno della loro collaborazione. E poi insieme hanno creato il suo primo capolavoro, 4 marzo ’43. Anche se all’epoca il mio snobismo jazzistico non lo salutò affatto come un capolavoro, io la grandezza di Lucio l’ho capita molto dopo. È stato quando feci per la Rai il programma Hamburger Serenade dalla discoteca Bandiera Gialla di Rimini. Nei provini arrivavano cantanti che eseguivano L’anno che verrà e riascoltando più volte quel testo e quella musica mi resi conto che Lucio si meritava tutto il successo che aveva avuto. Lo chiamai per dirglielo e gli chiesi scusa per averlo invidiato e odiato per così tanti anni. Tornammo ad essere amici e infatti le due ultime colonne sonore le compose per i miei due film Gli amici del bar Margherita e Il cuore grande delle ragazze.
Non dimenticherò mai il giorno della sua morte. Stavo girando la serie tv Un matrimonio quando ricevo la telefonata che mi annuncia: «Hai visto Lucio? È morto». Rimango per un attimo senza fiato, smarrito. Mi ridesto quando sento che i cellulari di tutta la troupe trillano simultaneamente perché anche loro ricevono la notizia. Mi affaccio alla finestra e vedo che le macchine che passano per via Veneto, di colpo, rallentano. Qualcuno si ferma e c’è gente che scende e commenta: «Oh, è morto Lucio Dalla». È stato un momento di incredibile dolore collettivo, come avevo provato già il giorno dell’attentato a Kennedy, il giorno della strage alla stazione di Bologna e l’11 settembre per le Torri Gemelle. E questo dà l’esatta percezione del valore profondo che ha avuto Lucio Dalla nella nostra vita... A cominciare dalla mia.
Pupi Avati
La voce di Lucio Dalla: "La mia finestra segreta sul mondo"
Dio è grande. Per tutto quello che mi ha dato. Per i tramonti e le albe di tutti i giorni che mi ha dato, per la luna tagliata di falce e scolpita nel cuore che mi ha dato, per la fortuna di abitare luoghi da sempre abitati, carichi di una natura che con chi vi ha vissuto si fanno storia e arte insieme. Luoghi che, quando fuori il rumore si fa forte e diviene assordante, mi lasciano uscire per tornare in un mondo di ipotesi, di progetti abbozzati; mi lasciano uscire così senza dolore, lasciandosi andare come fanno la metà degli esseri umani quando spariscono, quasi senza rimpianto anche dallo specchio dei loro occhi. In mezzo a questo paese, a questi paesaggi, a questi borghi sperduti o a queste città rumorose e caotiche so che non posso perdermi mai, e so sempre da dove vengo: da momenti di estasi celeste, da cieli percorsi da sfere, da globi di fuoco, da stadi gremiti di angeli. E mi aspetto di tornarci diverso, infinito, mai puro, ma solamente migliore.
Quanti esili ho vissuto non me lo ricordo; ma ricordo quante vite sono stato e cosa facevo e come vivevo. Ricordo città moderne pronte a divenire antiche e perfette, case e palazzi farsi rovine, finestre chiudersi per non riaprirsi più, ricordo strade fatte di storia e di memoria, di vite abbandonate e di racconti mai finiti. Ricordo certi odori di cibi cucinati e quanto in fretta scende nella gola il vino ghiacciato. Adesso ricordo, forse, ero uno dei trecento alle Termopili, in una battaglia senza senso che vincemmo perdendo, forse ero sulle alpi con Annibale a battere i denti e a spingere elefanti, forse ero a guardare il sole nero di Caravaggio, o l’estasi di Santi e Martiri fissati su tele e muri, forse ero a gridare Viva Napoleone mentre vedevo cadere i simboli di una storia millenaria, mentre vedevo la gente che cambiava pelle, mantelli e cappelli; o forse ero un libro fatto di incerte lettere scritte a mano perdute nei colori delle miniature.
Fra i ricordi confusi di tante vite ricordo che passavo ore e ore affacciato a quello squarcio di cielo che era la finestra di casa mia nel centro della città. Mi piaceva sentire i rumori della strada e immaginare i bambini dentro le altre case, con i loro giochi e le loro mamme, mentre dappertutto si diffondeva l’odore dei mangiari che usciva dalle finestre vicine ai tetti e si mischiava con lo stridìo delle rondini sotto le arcate dei portici. Stavo troppo bene da solo lassù nella mia soffitta a costruirmi storie dentro case che di storia erano piene; solo aspettando i battiti dell’orologio di piazza Maggiore che qualche volta provavo a sfidare trattenendo il fiato per farli andare insieme ai battiti del mio cuore. Finestre case, strade e anche persone piene di memoria, ricche di storia e ricordi, anche se a ben pensare io non ho mai avuto una gran memoria: spesso mi annoiava ricordare quello che era già accaduto, a volte proprio non ci riuscivo e, anche se circondato da muri che di memoria erano pieni, aspettavo con ansia ogni giorno dopo, quel nuovo misterioso che nasceva dal più conosciuto passato. Tutto il resto era nebbia, una strana nebbia che avvolgeva la mia vita, la mia sfera sentimentale e affettiva.
Ho cambiato tante case, ho vissuto tante case, ho visto tante case con finestre che si affacciavano su strade disfatte dal tempo, o affacciate su prati verdi mossi come onde dal vento o affacciate sul mare blu, o sulla lava del vulcano, o avvolte nel fumo di nere ciminiere circondate dall’incedere incerto e veloce di uomini che come formiche andavano e venivano dalla casa al lavoro e dal lavoro alla casa, sguardo basso, pensieri lontani dalla storia e dall’arte che li circondava, ma che tutti violentava penetrandoli fin nelle vene, fino a diventare luoghi irrinunciabili in cui passare in silenzio amore, gioie, sofferenze e vita. Di tante case non ce n’è stata una che non avesse una finestra, uno straccio di cielo qualunque che si affacciasse sui tetti delle città dove ho abitato e da dove ascoltavo, controllavo, cercavo i battiti del vostro cuore, i vostri respiri, le vostre bestemmie, il rumore dei vostri sogni, i misteriosi piccoli delitti quotidiani e le miracolose nascite che tutti i giorni Dio ci manda e che avvengono sotto i cieli di tutti i paesi e di tutte le città nelle notti coperte di stelle.
È da lì che sono cadute parole, pietre, storie e suoni lontani che mi arrivavano dal meraviglioso inganno dell’amore che non finisce mai o la sensualità degli incontri più belli, quelli sognati, quelli dove non ci si lascia più, dove non si muore o morire è soltanto sparire come sotto una dolce, deliziosa nevicata. È da quello squarcio di cielo e di cuore che vi ascolterò anche quando nessuno mi vorrà ascoltare, che vi cercherò ancora anche se non mi verrete più a cercare. E da lì in alto, fino a quando ci sarà una finestra, il mio cuore continuerà a cantare la vita e la storia che la prende.
Lucio Dalla