Cinema . Il regista di «A Ciambra», candidato agli Oscar: «Ecco il mondo Rom»
Qualcuno lo definirebbe un luogo dell'anima, invece a A Ciambra, la comunità Rom di Gioia Tauro, in Calabria, dove Jonas Carpignano ha girato il suo secondo lungometraggio, è reale, disturbante, vitale, misterioso. In quella comunità si muove Pio Amato, 14 anni, che si comporta come un adulto ed è uno dei pochi capaci di entrare in relazione con tutte le realtà presenti in zona. Segue e ammira il fratello maggiore Cosimo da cui apprende gli elementi basilari del furto, ma quando lui e il padre vengono arrestati, tocca a Pio prendersi responsabilità assai più grandi di lui. Prosecuzione del precedente e omonimo documentario del 2014, A Ciambra è un romanzo di formazione sorprendente e anomalo, intenso e personale, che ha conquistato persino Martin Scorsese e che attraverso la finzione riesce a raccontare la realtà meglio di come farebbe qualunque documentario. Ne abbiamo parlato con il 33enne regista, padre italiano e madre afroamericana, che nel 2015 si era fatto notare a Cannes con Mediterranea, girato tra gli immigrati di Rosarno. Difficile credere che in Italia esistano posti così. «Tanti pensano che sia finto, un set ricostruito. Io rispondo sempre: venite a vedere con i vostri occhi».
Cosa la lega a questo luogo?
«Sono stato conquistato dallo spirito delle persone, che hanno un'esistenza ristretta, ma al tempo stesso molto libera. Vivono seguendo delle regole che si scrivono da soli perché non hanno altra scelta. Come in una favela brasiliana, si autogestiscono al di fuori della società».
Come è entrato in contatto con loro?
«Mi trovavo a Chiana per lavoro. Era sparita la mia macchina con tutta l'attrezzatura e mi hanno detto che avrei dovuto parlare con gli zingari della Ciambra. Così sono entrato in questo mondo. All'inizio ero piuttosto preoccupato, ma l'energia delle persone mi ha investito di emozioni e mi sono ripromesso di tornare».
Ha ritrovato la macchina?
«Si, me l'hanno ridata».
Ridata o rivenduta?
«Rivenduta».
Il confine tra realtà e finzione è labile. Come lavora su questo crinale?
«L'idea è proprio cancellare questa distinzione, come anche molti altri registi stanno facendo. Tutte le mie scelte partono sempre dal punto di vista delle persone che popolano il film. Nel precedente Mediterranea la visione dei luoghi è frammentata perché corrisponde a quella che ha Koudos quando arriva in Italia. Ci sono dei momenti in cui il protagonista, che ora è mio grande amico e coinquilino, conosce solo se stesso e il mondo intorno a lui è sfocato. In A Ciambra ho fatto la stessa cosa: chi viene a Gioia Tauro vede palazzi costruiti a metà, montagne di spazzatura: per Pio non sono importanti, lui non le guarda perché ci è abituato. Se la macchina da presa si soffermasse a osservarli restituirebbe uno sguardo da turista».
Perché sente la necessità di abbattere barriere tra realtà e finzione?
«Credo che il pubblico sia ormai stanco di vedere sempre le stesse cose e lavorare su questo confine significa offrire qualcosa di nuovo. Gli attori portano con sé esperienze e aspettative, spesso nascondono i personaggi. Pio Amato ha quell'autenticità che piace alla gente».
Come lavora con i non attori?
«In modo anomalo perché siamo sempre noi ad adattarci ai loro ritmi. Giriamo solo quando sono pronti. Il bimbo di tre anni che vedete nel film lo conosco da quando è nato, io e la mia macchina da presa facciamo parte del suo mondo da sempre».
Esiste una sceneggiatura?
«Sì, ma gli attori sono analfabeti e non possono prepararsi. Io arrivo sul set e spiego quello che devono fare, tutto quello che dicono o fanno nel film sono cose che hanno già detto o fatto nella vita. Nessuno fa cose lontane dalla propria realtà».
Pio è cresciuto con lei, siete fratelli, è per lei quello che Jean-Pierre Léaud era per Truffaut.
«Siamo fratelli, ma ora lui è diventato un adolescente insopportabile, litighiamo in continuazione, ha la macchinina e la ragazza e non pensa ad altro. Vive un momento particolare, di entusiasmo e prepotenza. Se anche io ero così a 15 anni devo chiedere scusa a mia madre. Sento una vicinanza forte con lui, anche se Pio non è una versione di me».
La capacità di Pio di cucire varie realtà è anche una aspirazione del suo cinema.
«È la cosa che più mi avvicina a lui, non abbiamo paura di attraversare mondi diversi. Per lui ancora più facile perché è cresciuto qui, il mondo è così. E io sono cresciuto anche nel Bronx oltre che a Roma».
Scorsese si è innamorato del suo film.
«A lui era arrivata la sceneggiatura, il cortometraggio precedente e alcuni scatti fotografici. Gli è piaciuto lo sguardo neorealista, ci ha messo il suo nome, poi ha visto il film, lo ha amato molto, è stato un grande alleato e mi ha commosso sentirgli dire certe cose. Lui parla di Pio Amato come del bambino di Sciuscià, è pazzesco».
Vive e lavora ai margini del sistema, ma sta andando forte e lontano. Si sta facendo dei nemici?
«Spero di no. Vivo a Gioia Tauro da anni, ci sono venuto per girare un film e ci sono rimasto, questa ormai è casa mia. Non ho scelto questo luogo per protesta contro il sistema, ma perché mi ci trovo bene. Lavoro così perché è l'unico modo che conosco, ma stimo moltissimo chi fa cinema in maniera diversa».