mercoledì 28 marzo 2012
​Dal 2 agosto alla Uno bianca: i reperti verranno distrutti. Ma così rischia di scomparire la memoria.  La studiosa Elena  Pirazzoli: «Dal punto di vista storico è un errore».
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I frammenti raccolti il 4 agosto 1974 a San Benedetto Val di Sambro, dove una bomba fece esplodere un treno, l’espresso Ro­ma- Brennero, provocando 12 vitti­me e passando agli annali della re­cente storia giudiziaria e civile del Paese come la strage dell’Italicus. Insieme a tanti altri oggetti collegati ad efferati delitti di ogni genere, alla storia nera del capoluogo emiliano. Come quelli repertati nell’apparta­mento dove la critica d’arte e do­cente Francesca Alinovi venne as­sassinata con 47 coltellate il 12 giu­gno 1983. Sono questi alcuni dei corpi di reato ammassati nell’archi­vio sotterraneo del Tribunale di Bo­logna e destinati al macero. E non da oggi. Un patrimonio storico, conservato negli scaffali polverosi, racchiuso nei sacchi o impacchet­tato; identificabile solo grazie a un numero riportato su un cartellino. Che è destinato a sparire per sem­pre. Per una volta non per colpa della 'mala giustizia' ma semplice­mente perché così vuole la legge. Secondo la quale queste tracce del crimine devono essere distrutte o smaltite quando non hanno più ra­gion d’essere, ovvero quando è in­tervenuta la sentenza definitiva per il processo cui ogni singolo reato fa­ceva riferimento. Fino al 2008 il tri­bunale del capoluogo soffriva di quella particolare sindrome in forza della quale le cose non si buttano. Non necessariamente per ineffi­cienza ma per un più o meno con­sapevole desiderio di non oltraggia­re oltremodo la storia di una città tante volte ferita da vio­lenze collettive o indivi­duali. Come cestinare, si pensava probabilmente, i tanti piccolissimi fram­menti, legati alla strage alla stazione di Bologna (abiti strappati, dentiere, l’asfalto distrutto dall’e­splosione)? Un accumulo di tracce del crimine che non piacque agli ispettori inviati dall’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano. E dopo quella visita l’eliminazione degli oggetti subì un’improvvisa ac­celerazione. Anche se alcuni 'cor­pi', dall’alto valore simbolico, scamparono alla distruzione. Come le pistole di ordinanza dei tre giova­ni carabinieri uccisi al Pilastro dalla banda della Uno bianca. E che oggi, grazie alla sensibilità di un’impiega­ta, sono custodite al Comando ge­nerale dei carabinieri di Roma. Un’altra clamorosa eccezione, volu­tamente sottratta alla grande disca­rica dei casi risolti, è il relitto del Dc9 di Ustica salvato da un museo della memoria costruito ad hoc do­ve continua a raccontare con es­senziale vigore simbolico il dram­ma delle persone coinvolte nella strage. Ed è proprio il tentativo di non strappare per sempre il filo del­la memoria che ha spinto Elena Pi­razzoli, che attualmente collabora con alcuni istituti storici della Resi­stenza e fondazioni legate a luoghi di memoria, ad affidare al sito web della rivista Il Mulino un appello perché non tutto vada perduto. «Anche se da un punto di vista pro­cessuale certe vicende di trenta, quarant’anni fa (o anche più) sono considerate concluse, in realtà resta un alone di dubbio e mistero - e il caso Alinovi è certamente uno di questi, essendo uno di quei casi ita­liani che ogni qualche tempo viene raccontato nei programmi di se­conda serata e tenuto vivo nella ro­sa delle faccende poco convincenti. È uno dei nostri, potremmo dire in gergo televisivo, cold cases». Ma al di là della giustizia, prosegue «c’è la storia, che guarda agli eventi - quei fatti che emergono, si distinguono ­e che ha bisogno di tempo per farsi, e di solito inizia a lavorare quando un fatto esce dalla cronaca. Da molti indizi, sembra che trent’anni siano il tempo necessario perché u­na nuova memoria inizi a farsi ri­flessione profonda (forse perché è il tempo che i bambini, nati dopo o testimoni troppo giovani, ci metto­no per diventare adulti), mentre la storia ha bisogno di più tempo. E ha bisogno di documenti. Di fondi archivistici, di reperti. Non cerca il colpevole, ma cerca il contesto in cui questo ha agito, si è formato, è cresciuto. Perché cerca di ricostrui­re per capire, non per giudicare». O­ra, la notizia della distruzione dei corpi del reato bolognesi, aggiunge la Pirazzoli «ci colpisce, ci meravi­glia, ci indigna: eppure sappiamo bene che non possiamo tenere tut­to, non possiamo costruire un mu­seo della memoria di ogni cosa. Ep­pure facciamo fatica a non conside­rare quei reperti come delle reliquie . Corpi di reato che non so­no altro che tracce di corpi sacri perché appartenenti a vittime di e­venti che hanno segnato la nostra società, la società di un dopoguerra sazio, ricostruito, ma non per que­sto sereno e pacificato». In questo contesto la proposta: «Almeno, pri­ma di mandare tutto al macero, po­tremmo chiedere a qualcuno, qual­che artista, regista, fotografo, scrit­tore, qualcuno che sappia essere sensibile agli oggetti e al loro porta­to, di rileggerli per noi, di assumer­ne la sostanza e dispiegarne un’ela­borazione. Potremmo chiedergli di attraversare l’archivio, sopportare l’inquietudine e il dubbio, addirit­tura l’orrore e il panico, e guardare quello che c’è. Poi terremmo questa nuova creazione e potremmo an­che gettare l’oggetto, rendendoci conto che in fondo non è altro che un abito, un paio di occhiali, un pezzo di asfalto, una scarpa». Da corpo del reato di nuovo ad oggetto comune.
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