Nel 1957 l’archeologo James Mellaart scoprì in Anatolia una straordinaria città alveare: Catal Hoyuk costruita nel settimo millennio a.C.,e abitata fino alla metà del quarto, rappresentava una delle più straordinarie meraviglie del mondo antico apparse dal lontanissimo passato. Gli edifici, costruiti in mattoni di argilla e paglia essiccata, con pilastri e travi in legno, si raggruppavano in un agglomerato di abitazioni adiacenti, inframmezzati di tanto in tanto da cortili e con ampie improvvise aperture verso l’alto. Non c’erano strade, quindi, ma comunicazioni interne, spostandosi sui tetti e entrando grazie a scale a pioli. Una città di inquietante natura, non fortificata ma protetta dall’unico muro che la includeva, una sorta di alveare, appunto, o di città palazzo, dove i seimila abitanti manifestavano un grado di civiltà evoluto, coltivando per uso alimentare almeno quattordici specie vegetali, dall’orzo al frumento ai legumi, producendo bevande fermentate e allevando api, pecore e bovini. Spostandosi sui tetti gli abitanti accedevano agli appartamenti tramite botole, e gli archeologi, entrando nella città-palazzo, rivissero a novemila anni di distanza quell’esperienza. Simile a un sogno, o alla visione che ebbe Marco Polo del Palazzo di Kublai Khan, signore di tutti i tartari di oriente e occidente. Fu agevole ricostruire la vita materiale, e la presenza di reperti rivelava l’uso di tappeti, di sapiente tessitura, ma la meraviglia si manifestò come in un film in quelle sale che gli studiosi definirono "templi", luoghi privilegiati e destinati a celebrazioni rituali. Le pareti di quei templi riproducevano, nelle pitture murarie, splendidi tappeti
kilim, riconoscibili senza errori e databili al seimila a.C.. I disegni stilizzati dei tappeti dipinti sono sostanzialmente analoghi a quelli dei
kilim di produzione attuale. La simbologia dei disegni è riconducibile al culto della Grande Madre, culto della fertilità diffusissimo nel Neolitico, con rappresentazioni della divinità nell’atto di partorire, affiancata da due divinità guardiane. Un’altra simbologia rilevata sui
kilim rappresentati sulle pareti dei templi riguardava il culto del Signore degli animali, molto diffuso in Oriente, che indicava misticamente la capacità umana di governare e disciplinare le forze della natura. L’uomo occidentale scopriva meravigliato, nella enigmatica ed evoluta città-alveare, la presenza sacrale, liturgica del tappeto, nella fattispecie il
kilim, considerato il più umile per la lavorazione (è un tessuto piano, di minor spessore di quelli annodati) e la funzione utilitaria sin dalla sua nascita: dall’Anatolia e in una vasta fascia del mondo (Persia, Turchia, India, regioni mediterranee) i
kilim, più che oggetti decorativi, avevano funzioni pratiche: divisorio di dimore tribali, interni di tende, coperture, sacche da trasporto, tovaglie da mensa, gualdrappe e bande per fissare il carico sulle selle dei cavalli. La scoperta del
kilim rappresentato dal pittore sulle pareti nelle sale-tempio ne svelava quindi l’importanza sacrale, celata nella sua umile funzione quotidiana.Per questo immagino che i tappeti volanti delle
Mille e una notte non siano sontuosi intrecciati persiani, ma
kilim, una sorta di intuizione del sacro nell’umiltà del quotidiano, come la paglia rilucente oro della famosa sedia di Van Gogh.Chi apre il libro
Kilim. Tessuti piani d’oriente (Electa) scritto da Taher Sabahi, grande esperto e collezionista di tali tessuti, sappia che trova un supporto di ordine storico (storia geografica, materiale e culturale) al mondo meraviglioso delle
Mille e una notte, e alle visioni che Marco Polo ricorda nel
Milione.Da ottomila anni almeno un’intera parte del mondo intreccia storie in un tappeto sottile e non rilucente come quelli che più si sono diffusi anche nella nostra realtà e nel nostro immaginario. Necropoli svelano messaggi religiosi, colme la gualdrappa
kilim del cavaliere sepolta accanto allo scheletro del suo cavallo, viatico per il viaggio ultraterreno.Si può scoprire inoltre la perduranza, in quel mondo, di un mito che è all’origine della cultura umana: la tessitrice. È anche alla nostra origine: Ulisse vaga, si perde, lotta, naufraga, e intanto Penelope tesse la tela che di notte distesse: non certo solo a provare al lettore la propria astuzia (non è una cosa da Omero), ma a significare che mentre l’eroe maschio naviga e lotta, la donna sta tessendo il suo destino e la sua storia. Le parche tessono il nostro destino, nel mito greco e romano, e Joseph Conrad le riprende nlle tre vecchie all’inizio dell’avventura angosciosa di
Cuore di tenebra. Aracne è la giovane tessitrice così brava da sfidare la stessa dea Atena, insuperabile in quell’arte: la sua arroganza verso gli dei è punita con la trasformazione in ragno. Anticipando, sul versante politeista, il destino dell’uomo che intende sostituirsi a dio nella definizione, nella tessitura del destino, anticipando quindi il Faustus e il Faust del mondo cristiano.Noi siamo fatti della stessa stoffa di cui sono fatti i sogni, afferma Shakespeare, e intende stoffa, cioè risultato di una tessitura, che, come quella del sogno, non giunge da noi stessi. Quel mondo che continua a produrre i
kilim prosegue questo mito della vita tessuta e rappresentata nella stessa azione del tessere, per istoriare, narrare, conoscere.