Raffaello e la Fornarina dipinti da Giuseppe Sogni (1826 c.) - .
La figura d’una statua che si anima, diventando così personaggio di un’opera letteraria (non importa se commedia, libretto d’opera o romanzo), non può non rimandarci al punitivo Convitato di pietra testimoniatoci da una tradizione secolare che ha avuto come vertici il Molière del Don Giovanni o Il convitato di pietra (1665) e il Mozart della sua celeberrima opera buffa. È quanto accade a Urbino al monumento di Raffaello: il quale, colpito da un fulmine, ci viene restituito risorto e pronto per un viaggio a Roma. A raccontarcelo in un singolarissimo romanzo, l’unico suo, è Giulio Aristide Sartorio (nato a Roma nel 1860 e lì morto nel 1932). Si tratta di Romae Carrus Navalis. Favola contemporanea, apparso nel 1905 per Treves e in seconda edizione due anni dopo (per non essere mai più ristampato), che le Edizioni Medusa propongono ora con un titolo meno criptico: Il ritorno di Raffaello (pagine 346, euro 27.00).
La curatrice Cecilia Gibellini nella documenta introduzione, citando Le confessioni e le battaglie di un artista (1907) dello stesso Sartorio, ci spiega perché il pittore abbia pensato a una storia così «durante il periodo della sua permanenza a Weimar (1896-1900)», dopo aver letto su un giornale italiano, ridendo «di un riso verde come l’assenzio», il retorico discorso tenuto per l’inaugurazione del monumento «da Sua Eccellenza il Ministro della Pubblica Istruzione», che auspicava appunto un grandioso ritorno a Raffaello. Dandoci anche conto del titolo originario: «Il titolo Romae Carrus Navalis allude al luogo e al tempo in cui si svolge la narrazione, cioè la capitale italiana nel periodo tra due carnevali (...), ma ne rivela anche l’intento satirico, poiché gli avvenimenti vengono implicitamente paragonati a un carnevale romano, in cui si muovono personaggi–maschere e, in un’atmosfera di irrealtà, accadono episodi comici e talvolta grotteschi».
Ma torniamo al Raffaello del romanzo (e all’Italia impegnata nella guerra coloniale in Africa): lo accompagnerà in questo viaggio nella Capitale (importante protagonista di queste pagine), spacciandolo per suo fratello, il pittore Alessandro Brandi (cognome con implicazioni di profezia, solo si pensi che sarà lo stesso d’uno dei critici d’arte più autorevoli del Novecento), «alter ego dell’autore », incontrato nella campagna romana: e il lettore, quanto a Raffaello, ne vedrà delle belle (fino al punto da insolentire lo stesso Brandi, che alla fine non ne potrà più di questo «essere insensibile ed egoista», tutt’altro che un «Semidio»).
Considerato l’artista che Sartorio fu, ci si sarebbe potuti aspettare o un’agiografia o una vera e propria – per qualcuno edipica – resa dei conti: né l’una, né l’altra invece. Il riferimento al Don Giovanni, infatti, non è, per così dire, solo in re, ma è autorizzato dallo stesso Sartorio nelle già ricordate Confessioni: «La sera nel teatro di Weimar si rappresentava il Don Giovanni di Mozart, e quando il Tenorio invitava la statua del commendatore, mi feci questa domanda (…): e se la statua di Raffaello avesse accettato l’invito del Ministro?». Il che ci fa avanzare l’ipotesi che il personaggio di Raffaello sia stato costruito in antitesi al Convitato mozartiano: se infatti questi è un restauratore della morale ortodossa, il pittore rinascimentale – novello Candide voltairiano – si mostra invece come un critico naturale della società e non solto di quella artistica. Ipotesi per altro coerente con la lettura che ci fornisce la stessa Gibellini, la quale rescinde il nesso D’Annunzio-Sartorio (la scelta del nuovo titolo va, ci pare, nella medesima direzione), rifiutandosi di ricondurre troppo facilmente il secondo al primo, com’è invece d’uso, magari sotto il segno del romanzo Il piacere (1889).
Il romanzo antropologico di Sartorio è un perfetto esempio di come l’arte possa essere felicemente utilizzata in funzione di qualcosa che la travalichi e, insieme, la potenzi nelle sue istanze conoscitive. È la stessa operazione, in effetti, tentata sulle sponde della speculazione filosofica da Michel Onfray nel suo sorprendente Il coccodrillo di Aristotele. Una storia della filosofia attraverso la pittura (Ponte alle Grazie, pagine 240, euro 22.00). Un libro che è anche un discorso sui rapporti tra pensare (oltre che interpretare) e vedere: basterebbe ricordare le brillanti pagine iniziali su un quadro di Rembrandt, Tobi e Anna in attesa del ritorno del figlio, tramandato a lungo (contro ogni evidenza) col titolo fuorviante di Filosofo in meditazione. Scrive Onfray: «Il fatto di non essere a conoscenza del soggetto religioso induce la lettura pagana di una scena profana. Quale lezione dobbiamo ricavare (…)? Probabilmente che ogni opera pittorica, per essere compresa, richiede un’operazione di decodifica». Lezione che è, indubitabilmente, la premessa trascendentale di tutto il libro. E ancora: «Comprendere la pittura mitologica, capire la pittura religiosa, decifrare la pittura a soggetto storico è possibile o pensabile solo se il fruitore già conosce quello che c’eÌ da vedere». Insomma: l’interpretazione è anche anamnesi, ritrovamento, sicché l’«immagine funziona da promemoria». Ecco, allora che, entro un percorso sempre riscontrato sulle illustrazioni, Onfray ci restituisce una mole impressionante di dati, mentre la storia del pensiero filosofico viene inventivamente riguardata da un’angolazione che ci consente di ristrutturarla con più libertà, nella convinzione che in pittura «un oggetto» può davvero servire «a riassumere il tutto». E lo fa con un impianto argomentativo che non limita l’immaginazione del lettore (soprattutto il più avveduto), ma la fortifica entro uno stato di gioiosa fibrillazione. Faccio un solo esempio tra i tantissimi nel continuo mutamento retorico-stilistico della scrittura: il Michel Foucault di Gérard Fromanger nel capitolo Il dente di Foucault. Siamo davanti a un testo che, per accumulazione euforica di dettagli, ci restituisce alla fine un pensatore che fu uno, nessuno e centomila. Vi pare poco?