L’agghiacciante testimonianza dei suoi due anni nel famigerato carcere di Evin,
Prigioniera di Teheran, è un bestseller internazionale, che ha portato Marina Nemat in giro per il mondo a sensibilizzare l’opinione pubblica sui pericoli della dittatura islamica in Iran. Ma a colpire maggiormente i lettori è stata la distanza cronologica tra il momento della prigionia, dal 1982 al 1984, all’uscita del libro, nel 2008: difficile comprendere come un trauma possa metterci più di vent’anni per essere elaborato e verbalizzato. Ecco il perché del secondo libro,
Dopo Teheran (Cairo, pagine 308, euro 17,00) che racconta la vita di Marina dopo la liberazione e l’emigrazione nel ’91 in Canada, dove vive tuttora col marito e due figli. Quella che dai lettori di
Prigioniera a Teheran era stata interpretata come una storia a lieto fine, è stata vissuta in realtà con emozioni anestetizzate, in una sorta di
black out del passato. Ne spiega il perché
Dopo Teheran, che esce ora in Italia, presentato da Marina Nemat in un tour a varie tappe: oggi alle 18,15 sarà al Centro Culturale di Milano in via Zebedia, 2; mercoledì alle 18 a Roma alla Casa internazionale delle donne, al Palazzo del Buon Pastore, via della Lungara, 19.
Questo secondo racconta la sua vita dall’arrivo in Canada ad oggi, ma sono molto diverse le motivazioni che l’ha fatto nascere?«Sì, perché ho scritto
Prigioniera di Teheran come una sorta di auto-terapia, per elaborare il trauma che ha sconvolto la mia adolescenza: la prigionia a sedici anni, le torture, il forzato matrimonio col mio carceriere che mi ha violentata e costretta a convertirmi dal cattolicesimo all’islam. Una volta scarcerata, i miei genitori non mi hanno chiesto nulla, secondo loro dovevo cancellare quell’esperienza: un atteggiamento che mi ha fatto sentire in qualche modo colpevole. Poiché il fidanzato che avevo prima della prigionia mi aveva aspettato, l’ho voluto sposare con rito cattolico nonostante io fossi vedova di un musulmano e quindi ufficialmente passata all’islam e passibile di morte per l’abiura. Perciò la nostra posizione era pericolosissima, era necessario emigrare: abbiamo fatto debiti per racimolare la cauzione necessaria all’espatrio e finalmente siamo arrivati in Canada, dove già stava mio fratello e dove ci hanno raggiunto i miei genitori. Ma non è stato un lieto fine: il tentativo di rimuovere il passato mi aveva segnato, ero preda di incubi, di
flash back, di disturbi psicosomatici».
Qual è stato il momento liberatorio, che le ha permesso finalmente di affrontare ed elaborare il trauma?«A dare la stura al dolore è stata la morte di mia madre, nel 2000: al suo funerale è emersa tutta la rabbia che nutrivo perché si era sempre negata alla confidenza. A poco a poco mi sono permessa di rievocare tutto quello che mi era successo, ho sentito il bisogno di fissare i ricordi attraverso la scrittura. Mi sono iscritta a un corso di scrittura creativa, sottoponendo all’insegnante e ai compagni quello che andavo via via ricordando. Anche la lettura di memorie di alcuni prigionieri iraniani mi è servita a capire che tanti altri avevano provato esperienze simili. È stato un percorso lungo e sofferto, ma alla fine l’uscita del libro mi ha ricompensato, restituendomi a una nuova vita, più matura e consapevole. Oggi aiuto altri ex prigionieri, offrendo loro quello che a me è stato negato, cioè questa semplice frase: "Quando sarai pronto a parlarne, vieni da me"».
Lei è uno dei volti-simbolo delle vittime della dittatura iraniana, insieme ad altre donne come la studentessa uccisa Neda, la giornalista Roxana Saberi, la prigioniera Sakineh. Come mai la dissidenza iraniana ha un’immagine femminile?«La rivoluzione islamica ha ovviamente travolto tutta la popolazione, ma sono state le donne le più penalizzate: ai tempi dello scià mettevamo le minigonne, ci truccavamo e potevamo comportarci come le nostre coetanee occidentali, poi il nostro stile di vita è diventato illegale. Secondo me proprio le donne, adottando tutte insieme un abbigliamento più libero, potrebbero compiere un significativo atto di dissidenza. Non potrebbero arrestare tutte le donne senza burqa, se riempissero le strade».
Lei è cattolica: pensa che anche in Iran potrebbero manifestarsi persecuzioni contro i cristiani come sta succedendo in Iraq e in Pakistan?«La nostra è una tradizione di tolleranza religiosa. Non ci sono mai stati arresti o persecuzioni contro i cristiani in Iran, e non penso che avverranno. Tuttavia è importante che dall’Occidente giungano messaggi per impetrare un maggior rispetto dei diritti umani. Anche in Italia parlerò nelle scuole e chiederò ai lettori e agli studenti di mandarmi messaggi in favore di Sakineh, che io provvederò a diffondere via internet. È una causa per cui ognuno dovrebbe impegnarsi».