«Per sopravvivere, non si ha bisogno di fortuna, ma di una lunga serie di fortune. Si devono prendere molte decisioni e fare tante cose per aiutare, prima di tutto, se stessi». Considerazioni, amare, che marciano veloci nella mente di Shaul Ladany, 40 anni dopo quel tragico 5 settembre 1972 alle Olimpiadi di Monaco di Baviera. L’uomo in marcia, talora tragico e assorto come una scultura di Giacometti, con la sua memoria è ancora fermo a quel 5 settembre, al Villaggio olimpico, al n.31 di Connollystrasse. «Dentro l’unità 2. L’ultimo gesto prima di addormentarsi è lo stesso di sempre: via gli occhiali da vista, da cui non si separa neppure mentre gareggia e che gli conferiscono un’aria da professore...»: così Andrea Schiavon racconta la vigilia di quel massacro che insanguinò il mondo dello sport, in Cinque cerchi e una stella (Add Editore). Libro che ripercorre la straordinaria vicenda umana e sportiva del marciatore israeliano e che verrà presentato giovedì 6 settembre alle 21 al Festival della Letteratura di Mantova alla presenza di Ladany, al Chiostro del Museo Diocesano. A 36 anni, lo chiamavano già il “professore”, del resto l’ingegner Ladany teneva regolari lezioni dalla cattedra dell’università di Tel Aviv. Il suo “68” lo aveva fatto prima a New York assieme alla moglie Shoshana (allora ricercatrice), poi partecipando alle Olimpiadi del Messico. E quattro anni dopo, non aveva voluto perdere la grande occasione di essere a Monaco al via della 50 chilometri della marcia olimpica. Un sogno che diventò incubo, alle 4.30 di quel 5 settembre: un commando di terroristi palestinesi fece incursione nelle unità 1 e 3, prendendo in ostaggio atleti, allenatori e tecnici della delegazione d’Israele. Due ore di battaglia, 20 ore di trattative palpitanti e serrate, poi la fuga assurda verso l’aeroporto Furstenfeldbruck. Alla fine il bilancio passerà alla storia sotto alla voce strage: 17 morti tra cui 11 israeliani, 5 palestinesi e un poliziotto tedesco. Il primo a cadere fu l’allenatore dei lottatori israeliani, Moshe Weinberg, detto “Moony”, l’uomo a cui Ladany la sera prima aveva prestato la sveglia, «perché, mi disse, domattina devo alzarmi presto». Quella sveglia non suonerà mai, andò in frantumi sotto le raffiche omicide di un’organizzazione, nata appena un anno prima, che si firmava “Settembre Nero”. Ladany assistette impotente. Tutto il mondo andò in tilt. A cominciare dai media. I giornali all’indomani in prima pagina aprivano con due bufale clamorose: «Ladany scomparso», ma soprattutto con un rassicurante, quanto falso, «Liberati tutti gli ostaggi israeliani».
Invece la morte, ancora una volta, aveva solo accarezzato il cuore di Shaul. Il cuore sensibile e combattivo di quel rampollo di una famiglia della ricca borghesia ebraica ungherese, nato a Belgrado, dove il 6 aprile del 1941, la bella vita dei Ladany si sgretolò come la sua casa, ridotta a macerie da un bombardamento tedesco. Le SS bussavano alle porte degli ebrei e Shaul con i suoi genitori fuggì a Budapest. Quello che doveva essere il ritorno a casa e al rifugio sicuro, divenne la sua prima prigionia. A Budapest infatti, al comando dell’«Operazione Margarethe» si insediò Adolf Eichmann. Il carnefice Eichmann, che fece trucidare 440 mila persone, ma a sua volta verrà giustiziato nel 1961 (unica condanna a morte eseguita nello stato di Israele) dopo la cattura in Argentina da parte del Mossad e il “Processo” eternato in letteratura dalla filosofa Hannah Arendt. Epilogo lontano da quei giorni in cui Shaul per scampare alla deportazione venne affidato a un orfanotrofio salesiano. «Papà mi lascia la mano e il cancello si chiude alle mie spalle: sento che sto per piangere, ma trattengo le lacrime. Ho otto anni...», ricorda Ladany che con la stella gialla cucita sul cappotto, dal luglio al dicembre del ’44, si ritrovò con i suoi genitori nel campo di sterminio di Bergen-Belsen. Lo stesso in cui morì Anna Frank. «La brutalità di Bergen-Belsen mi ha lasciato la sensazione costante di fame, mista alla pioggia, il freddo, il filo spinato, gli appelli interminabili, il labbro leporino di una SS che ci grida addosso in continuazione...».
Tutto questo torna prepotentemente a galla nei giorni di Monaco ’72, quando Shaul chiede di non presenziare a Dachau alla visita commemorativa della delegazione olimpica israeliana. Viene obbligato, così come il 5 settembre i suoi occhi saranno costretti a vedere il drammatico ricorso della storia. Per descriverla, usa le parole del capo del Mossad, Zvi Zamir: «Dopo la Shoah, ancora una volta degli ebrei camminavano legati sul suolo tedesco». La storia si ripete in maniera sempre più macabra e irreale, e lo fa ancora proiettando le sue ombre e i tanti perché, che non hanno mai avuto adeguata risposta. «Perché non erano state predisposte misure di sicurezza maggiori per la squadra israeliana? Perché all’aeroporto c’erano solo cinque cecchini, quando i terroristi erano otto? Perché i tre uomini superstiti di Settembre Nero (i diciannovenni Jamal Al Gashey, Mohammed Safady e lo zio di Jamal, Adnan Al-Gashey) verranno liberati meno di due mesi dopo in circostanze dubbie?». Tre criminali barattati per salvare i passeggeri del dirottamento del volo Lufthansa Damasco-Francoforte.
Due mesi dopo il massacro di Monaco, Ladany a Lugano vinse il titolo mondiale alla 100 km di marcia ed era appena trascorso un anno, settembre 1973, quando dopo aver marciato per 19 ore e 38 minuti la 100 miglia su pista nel Missouri, pagò di tasca propria il biglietto del volo di ritorno per Israele: «Dovevo andare a combattere la Guerra di Yom Kippur». Oggi il 76enne professor Ladany vive nella sua casa di Be’er Sheba (nel deserto del Negev), vicina a quella dello scrittore Amos Oz, e ci sono tre cose che non ha mai smesso di fare: marciare, insegnare ai giovani il valore estremo della memoria e interrogarsi su quei tanti «perchè?». A cominciare da quello dell’essere sfuggito continuamente alla morte. «Il dono della sopravvivenza? Penso sia il complesso meccanismo di un orologio svizzero che potrebbe smettere di funzionare, se solo lo si tocca troppo».