“Visioni simultanee” (particolare), un dipinto di Umberto Boccioni del 1911
Per chi non ama gli scenari apocalittici, sarà utile rileggersi questa frase di Charles Du Bos: «Se ci venisse a mancare tutto, avremmo l’impressione, tuttavia, che la musica di Bach sarebbe sempre qui. Voglio dire che se il mondo fosse distrutto in qualche grande cataclisma, non si riesce a concepire ugualmente che essa vi possa essere coinvolta ». Commentando queste poche righe del critico letterario francese, che assomigliano molto a quanto sostenuto da Emil Cioran a proposito dell’esistenza di Dio, a suo dire non dimostrabile con vie razionali ma attraverso null’altro che proprio con la musica di Bach, lo storico Daniel Halèvy ha scritto: «Non ne conosco altre che esprimano meglio, né in termini più semplici, questa indefettibile eternità che avvolge, non sappiamo come, il corso delle nostre rapide vite e la storia con esse, e, insieme, le salva».
Il paradosso è che entrambe queste citazioni sono tratte da un volume dall’impostazione alquanto pessimistica, uscito nel 1948 e di cui è autore proprio Halévy: si tratta di L’accelerazione della storia, appena tradotto da Oaks editrice per la cura di Francesco Ingravalle e Tiziana C. Carena (pagine 174, euro 15). Amico di Proust, Péguy e Dreyfus, che difese al tempo del processo che mise sotto accusa il capitano ebreo, Halévy collaborò anche con “La voce” di Prezzolini ed è conosciuto per una sua biografia di Nietzsche e per una memoria degli incontri e dei discorsi con Edgar Degas.
In questo saggio prende il via da una domanda cruciale: come ha potuto permettere l’Europa, imbevuta del mito del progresso, di far trionfare il totalitarismo e subire due guerre terrificanti con l’orrore dei campi di sterminio e l’uso della bomba atomica? Dopo la tragedia dei due conflitti mondiali il pessimismo prevaleva fra gli studiosi. Ed era tornato di moda – un po’ come accaduto anche in Occidente a cavallo del Duemila – cimentarsi con la filosofia della storia.
Possiamo ricordare le opere di Nicolaj Berdjaev, Walter Benjamin, Jacques Maritain, René Grousset, Arnold Toynbee, Henri- Irenée Marrou. Utilizzando categorie che i curatori definiscono “cristiano-cattoliche” e non estranee a quelle della Scuola di Francoforte, Halévy ripercorre la storia delle civiltà a partire dall’Antichità ricercando all’interno dei processi storici le cause del crollo degli imperi e lo scatenarsi delle forze del male.
Un male che si manifesta come accelerazione del ritmo del tempo e, in fin dei conti, della storia stessa. Il nostro autore si riconosce in pieno nel giudizio che Jules Michelet dà nella Histoire du XIX siècle del 1872: «Uno dei fatti più gravi e dei meno notati è che l’andatura del tempo è del tutto cambiata. Ha raddoppiato il passo in una strana maniera. In una semplice vita di un uomo (solitamente di 72 anni) ho visto due grandi rivoluzioni che in altri tempi avrebbero potuto mettere in mezzo a loro un intervallo di duemila anni. Sono nato nel mezzo della grande rivoluzione territoriale e, ai nostri giorni, prima di morire, ho visto spuntare la rivoluzione industriale. Nato sotto il terrore di Babeuf, vedo, prima della mia morte, quello dell’Internazionale».
Ancora Halévy annota che, quando Michelet scriveva questa riflessione, l’umanità aveva cambiato di più, nel giro di cent’anni, che in trenta secoli da Ciro a Luigi XIV. «Perché i popoli si sommuovono?»: la domanda del salmista per Halévy si fa urgente e drammatica subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, dà l’avvio ai processi di decolonizzazione e consente a molte nazioni di liberarsi dal giogo dell’imperialismo. Ma è una domanda che ancor oggi si ripropone con i grandi movimenti di popolazioni che vogliono sfuggire a guerre, fame e calamità naturali e che però si ritrovano davanti un Occidente ricco che chiude le porte.
Il tema dell’accelerazione della storia è stato esaminato pure nei decenni scorsi, in seguito alla rivoluzione informatica, da studiosi come Virilio o Baudrillard, ma la specificità del saggio di Halévy è l’individuazione della necessità di porre un limite allo sviluppo. Non il solo progresso tecnologico, non la società di massa, non il mito della rivoluzione ma la sinergia di tutti questi elementi ha portato l’umanità a fare i conti con la possibilità della distruzione.
Un’analisi simile si ritrova nel libro di Romano Guardini La fine dell’epoca moderna, uscito nel 1950, in cui, in riferimento al progresso scientifico e tecnologico e alle sue enormi potenzialità, si legge: «Il problema centrale attorno a cui dovrà aggirarsi il lavoro della cultura futura e dalla cui soluzione dipenderà non solo il benessere o la miseria, ma la vita o la morte, è la potenza. Non il suo aumento, che questo avviene da sé, ma la via di domarla e di farne un retto uso». Guardini non ha rimpianti verso il passato e anzi apprezza molti dei valori della modernità, così come non rifiuta i passi avanti compiuti dalla scienza. Il problema – puntualizza però – è che «l’uomo moderno non è stato educato al retto uso della potenza».
Quello che il teologo amato da papa Francesco rigetta è la progressiva messa in disparte della componente spirituale della vita. Egli si accorge come il paradigma tecnocratico corra il rischio di farsi assoluto facendo perdere di vista il contenuto simbolico dell’esistenza, la capacità di meditazione e di contemplazione dell’essere e dell’universo, la dimensione della libertà umana capace di resistere al potere solo grazie all’educazione. Lui definiva tutto ciò «ascetica».
Un appello all’anima che anche Halévy fa proprio: rispondendo alle critiche ricevute al suo libro nega di definirsi nichilista, afferma di non ignorare affatto «i beni di cui la storia ci riempie» e di non aver voluto rinvenire nelle circostanze del tempi «i segni di uno scacco totale dello sforzo umano ». Esattamente come Guardini, invoca piuttosto un «progresso della disciplina interiore» che è mancato nello sviluppo tecnologico. Halévy cita al riguardo Bertrand Russell («L’uomo non è fatto per una potenza così grande») ed Henri Bergson, il filosofo francese che nel 1927, ricevendo il premio Nobel della letteratura, aveva messo in guardia dal dominio della tecnoscienza se a esso non avesse corrisposto un progresso spirituale dell’umanità.
Vale la pena ricordare cosa disse: «Le macchine che costruiamo sono organi artificiali che si aggiungono ai nostri organi naturali, li prolungano e ingrandiscono così il corpo dell’umanità. Per continuare a riempire tutto questo corpo e per regolarne ancora i movimenti bisognerebbe che l’anima si dilatasse a sua volta, altrimenti l’equilibrio sarà minacciato e sorgeranno difficoltà molto gravi, problemi politici e sociali che non faranno che tradurre la sproporzione fra l’anima dell’umanità, rimasta circa quel che era, e il suo corpo enormemente ingrandito. Gli antagonismi, anziché scomparire, rischieranno di aggravarsi se non si compie anche un progresso spirituale, uno sforzo più grande verso la fraternità».