Che cosa si nasconde dietro la «maschera dell’Africa»? Che volto hanno le tradizioni religiose ancestrali, quale ruolo hanno svolto nel corso della storia del continente e, soprattutto, quanto peso continuano ad avere nella sua vita quotidiana? Sono domande, queste, che in molti si sono posti negli ultimi decenni e che hanno costituito la base di consistenti riflessioni di antropologi e filosofi, dentro e fuori i confini africani. Il recente libro dello scrittore anglo-caraibico Vidiadhar S. Naipaul,
La maschera dell’Africa (Adelphi), in cui il Nobel per la letteratura 2001 rende conto di un anno e mezzo di viaggio-inchiesta in vari Paesi del continente alla ricerca di «immagini della religiosità africana» (come recita il sottotitolo) disorienta perché lascia la sensazione che l’autore, nel presente lavoro, abbia voluto prescindere da questi contributi. Se è vero che Naipaul porta avanti una ricerca rivolta al grande pubblico, viene comunque da chiedersi se intraprendere un «viaggio di osservazione» sia il modo migliore per cercare di penetrare le categorie di pensiero e il sistema di credenze ancestrali africane: un universo il cui disvelamento agli «esterni» resta tuttora un tabù.Il tentativo stesso di alzare il velo su questo universo, tuttavia, costituisce per alcuni un motivo di merito da non trascurare. «L’Africa nera torna ogni tanto alla ribalta dell’attualità, purtroppo quasi sempre per avvenimenti negativi: carestie, guerre tribali, dittature», premette il missionario del Pime e giornalista padre
Piero Gheddo. «Si dice che bisogna dare a quei popoli più finanziamenti, aiutarli "a casa loro", smetterla di rapinare il continente delle sue ricchezze: da mezzo secolo siamo abituati a questi ritornelli e molti non capiscono come mai l’Africa nera non si sviluppa. Ora, Naipaul capovolge le nostre conoscenze e credenze». Per Gheddo, lo scrittore «ha scoperto quanto gli studiosi dell’Africa già sanno, ma con una differenza». Infatti – sostiene –, «chi studia l’Africa legge di riti e magie in un modo in un certo senso distaccato, pensando che la vita oggi sia molto cambiata e tutto si riferisca a un lontano passato: Naipaul, invece, incontra scrittori, uomini politici, professori universitari, giornalisti e molta gente comune, e documenta come proprio quelle credenze siano radicate nella cultura e mentalità di molti e rappresentino, in fondo, un forte ostacolo allo sviluppo».Di avviso diverso è
Mario Giro, responsabile per le relazioni internazionali della Comunità di Sant’Egidio. «Non considererei affatto le culture tradizionali africane una sorta di tara originaria!», afferma Giro. «La colonizzazione, per l’Africa, rappresentò una forma di globalizzazione ante litteram, basata però su un rapporto diseguale. I colonizzatori utilizzarono le strutture istituzionali tradizionali per i propri scopi, modificandole e rendendole fisse, con i problemi del caso». Giro cita «la "cartina delle etnie", o la scelta di istituire tribù e capi di "serie a" e di "serie b", che avrebbe causato gravi distorsioni». Fu quindi l’impatto dell’Occidente a fare "impazzire" le strutture tradizionali? «Non è così. In ogni contesto, l’incontro-scontro con situazioni sociali nuove e complesse spesso porta a conseguenze critiche: le accuse di stregoneria verso i bambini di strada o gli anziani, in Paesi dove la vita media si è allungata, rappresentano la spiegazione irrazionale scelta per motivare uno stigma sociale: un meccanismo che tra l’altro non è certo alieno all’Europa di oggi!». Giro nega tuttavia che «questi elementi abbiano un peso così importante nella vita quotidiana degli africani: molto di più ne hanno gli effetti della globalizzazione, con i giovani che affollano gli internet point e passano ore in chat».L’Africa, insomma, ha molti volti nuovi, e «ignorarli è colpevole»: ne è convinta
Lidia Procesi, docente di Storia delle filosofie extraoccidentali all’Università Roma Tre. «Da tempo, filosofi e intellettuali africani hanno messo al centro della riflessione il portato delle proprie tradizioni e il loro rapporto con la modernità e con il pensiero occidentale», spiega la professoressa Procesi. «Un autore come Kwasi Wiredu ha chiaramente espresso la necessità di una "decolonizzazione concettuale" nella filosofia africana, necessità impostasi innanzitutto a causa della sovrapposizione storica di categorie mentali straniere sui sistemi di pensiero africani, attraverso il linguaggio, la religione e la politica». Parallelamente, secondo Procesi, «gli intellettuali occidentali dovrebbero riconoscere l’esistenza di una "colonizzazione mentale" che impedisce di considerare su un livello paritario pensatori e accademici africani». Un meccanismo insidioso e duro a morire: «Io stessa – chiarisce Procesi – in alcune occasioni mi sono resa conto di dare per scontato il concetto di etnofilosofia, proveniente da una cultura di cui sono imbevuta».D’altro canto, tentare analisi sociali, economiche, politiche sull’Africa senza tenere conto della rilevanza del sistema di credenze ancestrali nella vita quotidiana sarebbe, secondo Anna Bono, altrettanto superficiale. Docente (tra i vari incarichi), di Storia e istituzioni dell’Africa a Torino, Bono ha trascorso lunghi periodi di ricerca sul continente per dodici anni: «In quell’occasione – spiega – ho compreso quanto la stregoneria e il culto degli antenati abbiano giocato, e continuino a giocare, un ruolo di blocco per il cambiamento e lo sviluppo, in forza della loro funzione di "garanti" della fedeltà al passato. In questo contesto, l’intraprendenza e i tentativi di innovare usi e abitudini sono socialmente frenati, come ben sanno missionari e cooperanti». Esiste poi, secondo Bono, un elemento ancora più determinante: «Il sistema delle credenze tradizionali rappresenta anche la risposta che l’Africa ha dato alle domande comuni a tutta la storia dell’umanità riguardo le cause del male, delle disgrazie, del dolore: secondo tale sistema nessuna tragedia è casuale ma è conseguenza di una colpa, una regola non rispettata, il malocchio di un vicino invidioso. Il che comporta anche l’atteggiamento di stigma che la società incoraggia, per esempio, verso chi è malato». Ma come potrà, allora, l’Africa, scrollarsi di dosso l’inesorabile macchia del "cuore di tenebra"? «La comunicazione con il resto del mondo è importantissima. Le giovani generazioni che, attraverso le opportunità delle nuove tecnologie, si mettono a confronto con opzioni e idee diverse costituiscono un importante motivo di speranza».