Joana Vasconcelos, “The Crown”, Museo Archeologico Paolo Orsi, Siracusa - Licia Pallalacqua / courtesy dell’artista e del Parco Archeologico e Paesaggistico di Siracusa
È una radiosa primavera italiana per Joana Vasconcelos. L’artista portoghese, nota per le sue installazioni morbide e monumentali realizzate in tessuto e oggetti comuni, tra le maggiori interpreti della scena internazionale (più volte in Biennale, protagonista nel 2012, prima e unica donna, di una grande mostra a Versailles e nel 2018 al Guggenheim di Bilbao) è protagonista di tre mostre, a cura di Demetrio Paparoni. Al Museo archeologico “Paolo Orsi” di Siracusa con Crowned Idols fino al 26 luglio “incorona” un idolo cicladico del III millenio avanti Cristo. A Napoli una delle sue tentacolari Valkyrie è il cuore della collettiva “InterAction” alla fondazione Made in Cloister. Alla Galleria Mimmo Scognamiglio di Milano, infine, la personale “Stupid Furniture” (fino al 29 luglio) propone il suo lato più intimo, ma non meno esuberante, con vecchi mobili ripopolati da forme surreali. Una serie, quest’ultima, nata durante la pandemia. «In un certo senso – racconta nella galleria milanese – ero ritornata agli inizi della mia carriera, quando facevo opere piccole, che potevo realizzare in casa. Una volta riaperte, sono andata per piccole fiere a cercare mobili “stupidi”, insignificanti, privi di gusto, per trasformarli. Mi sono detta: prendiamo qualcosa di banale, anonimo, e gettiamolo nel mondo del pensiero, come una galleria. Io credo che nell’arte tutto sia possibile. Anche dare un’altra vita, un’altra identità. Prendere qualcosa che era rifiutato e trasfigurarlo».
La parola “magia” è diventata un mantra nell’arte contemporanea. Si può parlare davvero di un legame tra magia e dimensione femminile?
«Io dico di sì. Senza magia non c’è trasformazione. La creatività è il momento in cui ampliamo la coscienza. E questo è un atto magico, non nel senso esoterico ma nel senso di dare forma a una cosa nuova, mai vista. Le donne lo hanno fatto lungo i secoli perché si trovavano bloccate in una identità imposta attraverso regole rigide. E così la spiritualità, ancor più che la religione, le ha aiutate: perché la spiritualità apre e amplia il pensiero. Oggi le donne sono più libere e hanno una indipendenza economica e mentale ma possono comunque fare propria questa dimensione spirituale. Non individuo in una religione, che sia cattolicesimo, buddhismo o taoismo, la forma corretta. Credo che tutte le religioni si fondino sugli stessi principi. Io provengo da una famiglia repubblicana e non sono né battezzata, ma devo dirlo con semplicità: trovo che papa Francesco sia un esempio di luce per tutta l’umanità. La scomparsa della rigidità della Chiesa cattolica è una forza, lo vediamo di fronte a quella del patriarca ortodosso Kirill. L’apertura è il paradigma della trasformazione».
Joana Vasconcelos, “La Sirenetta”, 2021 - courtesy Mimmo Scognamiglio Artecontemporanea Milano
Nel suo lavoro tornano spesso, anche solo rievocati, i peluche. Winnicott ha riconosciuto loro il valore di oggetti transizionali. Possiamo considerare le sue opere con lo stesso segno?
«I bambini non possono separarsi dal loro orsacchiotto. Succede anche con le opere d’arte. Ho conosciuto coppie di collezionisti che al momento di un divorzio hanno litigato furiosamente per le opere. Il conflitto è dovuto al fatto che ritieni di avere bisogno di quell’oggetto per vivere. Davvero l’opera d’arte è connessa con l’oggetto transizionale, perché ha un’aura magica. È un oggetto che fa trasformare i tuoi pensieri, la tua identità».
Al Museo Orsi di Siracusa ha collocato The Crown sopra un idolo cicladico. Cosa significa incoronare oggi una statuetta di 5mila anni fa?
«In tutta onestà, all’inizio io non ne avevo idea. Demetrio Paparoni mi aveva proposto di lavorare all’interno del museo, ma ero preoccupata perché faticavo a trovare una relazione tra la mia opera, che ha una scala importante, e l’architettura. Invece l’idolo era di dimensioni ridotte, non era un problema tecnico e quindi in un certo senso non lo prendevo in considerazione. A un certo punto però mi cade l’occhio sulla piccola scultura. E l’idolo di 5mila anni ha iniziato a vibrare. Sono rimasta spiazzata. Era il momento in cui operare. Abbiamo arretrato leggermente The Crown per suggerire un suo movimento verso la scultura. Ma nell’istante in cui l’abbiamo messo nella vetrina, l’idolo ha preso l’energia dello spazio. È stato l’idolo, non la mia opera, ad aver messo a fuoco l’ambiente».
È stato un momento sacro?
«È come quando un’immagine esce dalla chiesa per una processione. Come dicevo, ho avuto una educazione rigorosamente laica. Nel giugno 2012 i pescatori di Afurada, un villaggio sulla foce del Douro, mi avevano commissionato la decorazione della barca che porta in processione la statua di san Pietro. Mentre ero con i pescatori sulla barca durante il rito mi sono messa a osservare la statua. All’inizio la guardavo con l’occhio del-l’artista. Ma poi ho capito che la forza della scultura non era solo nella forma, ma è anche spirituale. Così quando l’idolo è entrato nella vetrina ho capito non solo la forza dell’artista di 5mila anni fa ma anche la forza spirituale dell’oggetto».
L'installazione di Joana Vasconcelos per la mostra "InterAcrion" a Made in Cloister, Napoli - Francesco Squeglia / courtesy dell’artista e Made in Cloister
L’incoronazione, la processione. O ancora Suspensão, il grande rosario che lei ha realizzato a Fatima nel 2017. La sua opera ha in sé un elemento rituale. È qualcosa che c’è sempre stato o che ha scoperto in itinere?
«Nel 2002 sono andata a Fatima, volevo fare un lavoro sul mercato e il consumismo che circondano il santuario. Ero appena giunta nel piazzale quando vedo arrivare un gruppo di pellegrini di un villaggio in cammino da una settimana. E poi arrivano le famiglie. E tutti si mettono a fare l’ultimo tratto sulle ginocchia. È stato qualcosa che mi ha colpito profondamente. Da quel viaggio ho realizzato www.fatimashop, un’Ape Piaggo che contiene nel cassone una serie di statuette di Fatima. Quando era in mostra a Manchester un giorno mi ha chiamato la direttrice per dirmi che un visitatore aveva girato tutte le madonne di spalle. È rarissimo che un visitatore intervenga su un’opera. In un’altra occasione invece una persona si è messa a pregare con un rosario in mano. Io ero allibita: credevo di aver fatto un negozio. Invece ho capito di aver fatto un altare. Ho lavorato su me stessa e alla fine ho dovuto ammettere che avevo una dimensione spirituale che non conoscevo».
Quando l’arte riesce a raggiungere questo potenziale rivelatore?
«Io l’ho capito quando ho visto l’Apollo e Dafne di Bernini alla Galleria Borghese. Una scultura in cui il corpo e la spiritualità sono congiunte. Noi siamo corpo, mente e spirito. Ma l’incontro delle tre componenti è molto difficile, ogni uomo scrive la propria equazione. Anche nell’opera questi tre elementi dovrebbero convergere. Eppure non tutte le opere li posseggono e li manifestano: esattamente come gli uomini. Le ha la Dafne, o la Pietà di Michelangelo. Quando le guardiamo noi gustiamo l’equilibrio tra queste tre parti. E l’emozione che proviamo è l’esperienza della perfezione. Anche l’idolo di Siracusa ha questa perfezione: nella sua umiltà, nella sua dignità, nella sua regalità».