martedì 17 luglio 2012
COMMENTA E CONDIVIDI
​«Quella tensione continua ad essere il punto più avventuroso della mia traversata terrestre». Così risponde Mariangela Gualtieri quando le chiedo se la tensione che in passato l’ha portata «a sbirciare lì dove nulla era noto», anima ancora il suo presente. Una ricerca instancabile, peraltro, che privilegia la parola scandagliandola in tutte le molteplici possibilità espressive. Dopo aver dato vita a Cesena nel 1983, insieme a Cesare Ronconi, al Teatro Valdoca, la Gualtieri ha infatti infittito la presenza sugli scaffali delle librerie con pubblicazioni di versi via via più compatte, culminate nella silloge Bestia di gioia (Einaudi, 2010). Dove, tra i ringraziamenti iniziali, compare anche il nome rassicurante di Milo De Angelis. «La mia vicenda poetica è in qualche modo cominciata con Milo, il quale poi mi ha sempre regalato suggerimenti preziosi per ognuno dei miei libri. Oltre a questo mi è molto caro. Un amico e un maestro».Trattando entrambe in maniera ormai sufficientemente paritaria, sa dirci se ha trovato maggiore libertà nelle parole del teatro o in quelle della poesia?«Mi pare ci sia una naturalezza in questo passaggio, che per quanto mi riguarda avviene di continuo. Nel caso della scrittura teatrale sento di fare parte di un gioco di forze che coinvolge l’espressione e l’arte di altri, dal regista agli attori. Sento di fare parte di un concerto molto ampio e la "mia musica" è al servizio e in armonia con quella degli altri. Nei versi che nascono lontano dal teatro sono in piena solitudine e in una maggiore libertà. Soprattutto, questa seconda, è una scrittura più pacificata, senza la nevrosi dei tempi del teatro che, per forza, sono ben definiti e scoccano in modo micidiale».Che cosa si può donare agli altri facendo poesia?«È mia convinzione che la poesia faccia bene, che porti guarigione. Almeno così è stato per me. Le parole dei poeti che amo mi hanno nutrita, abbellita, hanno dilatato la mia comprensione e compassione del mondo e mi hanno anche educata, cioè condotta fuori dai luoghi comuni della lingua, del pensare e del sentire. Credo che questo possa valere per tutti».Ritiene che i versi debbano trattenere in sé qualcosa della voce, della cadenza, dell’inflessione vocale ma anche dei gesti o del modo di atteggiarsi di chi li compone?«Borges diceva che la sua massima aspirazione era diventare anonimo. La poesia, quando è tale, attraversa il tempo e le mode e può distaccarsi del tutto da chi l’ha scritta. Anzi, quanto più è universale, tanto più il poeta perde i connotati, come nel caso di Omero o di Shakespeare, autori immensi di cui si sa pochissimo. La risposta quindi è un no deciso, anche se ciascuno ha un proprio sigillo incancellabile, quello che poi determina la particolarità di ogni vero creatore».A guidarla nella composizione di un testo poetico è principalmente il suo orecchio (con la conseguente attenzione verso la ricca offerta sonora che le parole, debitamente accostate, producono), oppure una volontà di tipo razionalizzante, che si avvale, tra l’altro, della solita solida preparazione tecnica?«Penso che la poesia sia un dono e in fondo questo vuole significare la parola ’ispirazione’: qualcosa che viene a noi, non si sa da dove, non si sa per quale legge. Nella mia esperienza, non c’è né volontà né razionalità, piuttosto una accoglienza di qualcosa che ha tutta l’aria di venire da fuori, da un’altra parte, da un altro mondo. Poi certo c’è una capacità tecnica che secondo me non è che la conoscenza e la frequentazione degli altri poeti, del passato e del presente».Quali risposte tenta di darsi, scrivendo?«Non cerco di dare risposte. Forse sarebbe già gran cosa precisare delle domande. Porre delle domande cruciali, inaggirabili, o per lo meno tenerle vive».Cosa c’è di inspiegabile, di misteriosamente oscuro nell’impulso che determina ogni singola creazione poetica?«Inspiegabile credo sia la fonte di tale impulso, oltre che l’intero processo. Gli antichi tenevano vivo questo mistero attraverso il simbolo delle Muse: una corrente di energia che sta alla base di ogni arte ma che ha caratteristiche diverse – per questo le Muse sono plurali. Una corrente di energia con forte connotazione femminile: danzante, ridente, soave, capace di partorire, avere cura, proteggere. Una corrente di energia legata alla divinità, al trascendente – per questo le Muse erano divine e immortali. Un’energia sconosciuta, dunque, che le Muse simbolizzavano senza sminuirne il mistero e la complessità».Esiste il silenzio, o una infinita varietà di silenzi? Finora quante forme di silenzio ha potuto sperimentare?«Ogni pubblico ha il proprio silenzio, un silenzio che dipende dalla qualità dell’attenzione, la quale quando è intensa, tesa, sospende il respiro e immobilizza il corpo. Poi c’è il silenzio che precede la parola e che io sento come parte integrante della parola poetica. C’è il silenzio del prima e del dopo, il silenzio fra le parole e quello dentro le parole. C’è il meraviglioso silenzio della mente e quello del paesaggio, della natura, che non è mai silenzio nel senso di assenza perfetta di suono, ma è il silenzio della terra. Il silenzio dei morti che non smettono di tacere. Il silenzio degli animali. Sì, mi piacerebbe che ognuno di questi silenzi avesse un nome, così come per gli eschimesi esistono moltissimi nomi per la neve. Ah, certo, poi c’è il silenzio della neve. Forse la perdita più grave di questo nostro tempo è proprio il silenzio».Una preghiera pare tutto / il cielo. Una preghiera il verde / delle piante». Si può pregare anche senza parole, solo attraverso lo sguardo riconoscente dei nostri occhi? Ma nel buio, quali colori hanno le sue preghiere?«Ho scritto in una poesia "forse la gioia è la preghiera più alta" e lo credo davvero. È il corpo che in noi è più esperto di gioia. Credo dunque che ci sia una preghiera del corpo, più che una preghiera fatta di parole. Ed è vero, a me pare che tutto, intorno a noi, sia raccolto in preghiera».«Il bene è quasi una mia ossessione"», ha dichiarato. E ancora: «Credo che il male sia così attraente e ostenti tanta potenza, perché non abbiamo le parole del bene». Si fa davvero così fatica a nominare il bene? Di quali parole avrebbe bisogno, invece?«Ritengo che il bene abbia bisogno di silenzio e soprattutto di lentezza, cioè di tempo per l’attenzione, attenzione all’altro e agli altri. E anche attenzione a sé. Forse il bene può scaturire lì dove mi sento corpo unico con tutto, e non separo l’io e il mio dal resto».Potrebbe indicarci un aspetto dell’arte che la inquieta, la turba, o, addirittura, la impaurisce? E nella vita, cosa le fa più paura?«La cosa che davvero mi fa paura dell’arte è, quando succede, la quantità di denaro che la appesantisce e inquina. Personalmente invece mi fa paura non essere in armonia. Essere disamorata. Dante, nel suo viaggio, pare suggerire che il percorso da fare è dalla paura verso l’amore, quasi fossero una il contrario dell’altro». Quali sono stati i suoi "nutrimenti terrestri", le parole altrui di cui si è alimentata più spesso e che hanno sostanziato in modo determinante la sua poesia?«La risposta è inesauribile. Forse la cosa migliore è buttare lì delle parole: silenzio, ozio, la parola degli altri poeti, l’attenzione al mondo e alle persone, lo stare sola. Ma la sostanza più nutriente è senza dubbio l’amore. Cito Pound a memoria: "ciò che sai amare rimane, il resto è scoria. Ciò che tu sai amare non sarà strappato da te. Ciò che tu sai amare è la tua vera eredità…". So con certezza che ogni cosa che amo si deposita in me e a volte si fa canto».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: