I missionari «lasciano il proprio Paese d’origine, si separano dagli amici, ripudiano i propri parenti e viaggiano per luoghi remoti, constatando di persona che il mondo e i suoi abitanti sono un’unica grande famiglia», dove «possono esistere meraviglie e stranezze oltre ogni immaginazione, poiché il Creatore è onnipotente». Se abbandonano la patria affrontando pericoli mortali è «solo allo scopo di diffondere in tutto il mondo la conoscenza del vero Signore e salvare le anime affinché salgano al Cielo». Avere, «per grazia della sorte», «il tempo di risalire la corrente del tempo», permette al vero sapiente di «investigare l’inizio e la fine delle cose, celebrando così la gloria dell’Onnipotente».Bastano questi frammenti, colti dalla
Geografia dei Paesi stranieri alla Cinapubblicata per la prima volta nel 1623 a Hangzhou, per illuminare la grandezza di mente e di cuore del loro autore, il gesuita Giulio Aleni, nato a Brescia nel 1582, missionario nel Celeste Impero dal 1611 all’anno della morte, il 1649. Frammenti nei quali si rispecchia la parabola ecclesiale e culturale di un’intera «generazione di giganti» della missione in Cina, che nella scia di Francesco Saverio e del "padre" del metodo dell’inculturazione della fede, Alessandro Valignano, prese la via dell’Oriente: Matteo Ricci, Michele Ruggieri, Nicolò Longobardo, Lazzaro Cattaneo e altri gesuiti. Fra cui l’Aleni, che gli intellettuali cinesi del tempo apprezzarono al punto da ribattezzarlo "Xilai Kongzi", "Confucio d’Occidente".Solo il nome di Ricci ha raccolto un po’ di notorietà fuori dalla cerchia degli studiosi, grazie soprattutto alle iniziative indette per il quarto centenario della morte del gesuita marchigiano. Così non è stato finora per i suoi compagni e seguaci. Incluso Aleni, meglio conosciuto in Cina che a Brescia. A colmare la lacuna, negli ultimi anni, ci ha provato la fondazione Civiltà bresciana di monsignor Antonio Fappani con libri, convegni, l’istituzione nel 2008 di un centro studi, infine con la pubblicazione della sua
opera omnia, avviata nella primavera del 2010 con la prima versione integrale in una qualunque lingua del
Zhifang Waiji, la
Geografia dei Paesi stranieri alla Cina, nella quale Aleni descrisse il mondo allora conosciuto utilizzando il cinese letterario.Il testo, corredato da mappe, non descriveva solo la geografia ma anche i costumi, le istituzioni, la storia e le religioni dei diversi Paesi e lasciò una traccia profonda nella cultura cinese tanto da venir letto e studiato fino al XIX secolo. Grazie al gesuita bresciano la Cina prese coscienza dell’esistenza delle Americhe e della vera conformazione del continente eurasiatico e dell’Africa. La
Geografia di Aleni, complementare al celebre
Mappamondo di Ricci, aiutò le élite cinesi a superare la propria autoreferenzialità, aprendole alla comprensione della pluralità delle civiltà umane.La
Geografia è solo uno dei ventiquattro titoli riconducibili all’Aleni e – secondo Paolo De Troia dell’Università La Sapienza di Roma, al quale si devono traduzione, introduzione e note della
Geografia – uno dei sette che costituiscono la
summa della sua attività di apostolato e di trasmissione culturale e scientifica. Ne fanno parte l’altra sua opera geografico-divulgativa,
Domande e risposte sull’Occidente (1637); le tre opere filosofico-religiose che ebbero maggior seguito, la
Dottrina delle Tre Montagne (1625),
Della vera origine di tutte le cose (1628) e il
Compendio di psicologia (1624); l’opera pedagogico-divulgativa
Delle scienze europee (1623) e la
Vita di Nostro Signore Gesù Cristo Salvatore degli uomini, pubblicata per la prima volta nel 1635, corredata nelle sue diverse edizioni da una cinquantina di immagini capaci di armonizzare arte sacra e iconografia orientale.Quei testi, spiega De Troia, sono importanti per due motivi. Innanzitutto per la «straordinaria opera» di reciproco «adattamento delle culture orientale ed europea» che hanno promosso, stabilendo – ha scritto Eugenio Menegon nella biografia di Aleni
Un solo cielo (Grafo, 1994) – «una sorta di piattaforma razionale comune tra le tradizioni occidentale e cinese». In secondo luogo, per la spinta all’innovazione lessicale che hanno dato trasmettendo conoscenze e concetti nuovi. Alla luce degli studi più recenti, oggi si può dire che «il processo di formazione del lessico del cinese moderno» abbia preso il via «durante il periodo delle missioni gesuitiche in Cina e delle traduzioni scientifico-religiose operate dai missionari», un paio di secoli prima rispetto alla data tradizionalmente fissata dalla linguistica cinese e occidentale.Con la recente pubblicazione della
Vita di Matteo Ricci scritta dall’Aleni nel 1630, la prima mai redatta in cinese, l’
opera omnia fa un altro passo avanti. «Ricci e Aleni non si sono mai incontrati. Eppure la loro vita è profondamente collegata», afferma padre Gianni Criveller, missionario del Pime, curatore e co-traduttore della
Vita. La vicenda di Ricci «può essere letta come una lunga e drammatica ascesa a Pechino», una «lunga marcia» d’avvicinamento all’imperatore, alla corte, alle classi dirigenti, per ottenere legittimità politica e culturale e condizioni di sicurezza alla predicazione cristiana. «Il percorso di Aleni fu, in qualche modo, inverso», scrive Criveller. Dopo una dozzina d’anni da missionario itinerante fra Shanghai e Hangzhou, avendo anche sofferto prigionia, malattia e persecuzioni, dal 1625 si stabilì e rimase fino alla morte nella regione costiera del Fujian dove portò alla fede cristiana decine di migliaia di cinesi e acquisì la stima di letterari e funzionari. Lontano dalla corte e dalla capitale, mirò a «costruire reti di comunicazione tra la popolazione locale», annotò il compianto, illustre sinologo dell’Università di Leida Erik Zürcher. Eppure «nessuno, come Aleni, si avvicina a Ricci per personalità, formazione, spiritualità, genialità, ecletticità, erudizione, zelo, stile e metodo missionario – conclude Criveller –. Nessuno ne ha raccolto l’eredità tanto felicemente quanto Giulio Aleni».