Le Terme di Polques nel deserto di Atacama / Maurizio Fantoni Minnella
San Pedro de Atacama ASan Pedro de Atacama nel nord del Cile, alle porte del deserto più salino del mondo, pare che da qualche tempo sia avvenuto il miracolo: da ogni parte del mondo giungono turisti e viaggiatori d’ogni età per visitare il “lungo sentiero delle meraviglie” che ha luoghi e nomi suggestivi come questi: Valle de la luna, Piedras rojas, Lagunas altiplanicas y salar, Valle del Arcoris, Termas de Puritama, Geyser del Tatio y Machuca, Salar de Atacama y Toconao e altri ancora. San Pedro de Atacama è una sorta di città-avamposto dal classico impianto urbano ortogonale e dall’atmosfera vagamente coloniale. Un reticolo di strade acciottolate o in terra battuta rinserrate da file di case basse costruite in adobe come la bellissima chiesa seicentesca dedicata a San Pietro. Case dai diversi colori che un tempo neanche troppo lontano erano occupate da botteghe artigianali, alimentari, e altre legate alla vita reale di una popolazione, ma che oggi vengono in gran parte occupate da piccoli ristoranti, negozi di cianfrusaglie, hostal piuttosto spartani accanto ad alberghi il cui lusso fornisce la misura di ciò che è avvenuto in queste latitudini, ossia di una mutazione che non sarebbe esagerato definire antropologica, agenzie che, a centinaia, offrono a tutti le stesse cose. Luoghi da consumare velocemente, fare un selfie che sia la prova tangibile che tu sia stato effettivamente lì, e poi andarsene. La stessa cultura autoctona, di cui si vorrebbero esaltare i lineamenti proprio grazie al turismo di massa, verrebbe meno alla propria autenticità originaria, con l’imposizione, sia pure con il consenso di tutti, di consuetudini globalizzate nei comportamenti collettivi, nella spasmodica caccia al turista cui gli abitanti di San Pedro non sono certo avvezzi e perfino nell’alimentazione. In poco tempo gli abitanti si sono trasformati, un po’ per ingenuità e un po’ per bisogno, in personale dedito a tutti i servizi richiesti dalla pressione dei flussi turistici. A San Pedro i cani, in compenso, e ve ne sono molti, moltissimi a ogni angolo di quadra, sono liberi, creature animali senza padrone, di tutti e di nessuno. Chi li volesse pensare come randagi e portatori di ma-lattie si sbaglierebbe. I cani di San Pedro de Atacama sono puliti, affabili, pazienti, fantasiosi. S’intrufolano tra i piedi di tanti, troppi turisti sicuri di sé, arroganti, perché sempre portatori di un presunto grado di civiltà superiore, come generalmente impara chi ha avuto la fortuna di nascere nel cosiddetto e forse anche un po’ superato Primo mondo, senza abbaiare, senza tuttavia attendere troppo che giunga loro del cibo.
Il deserto che si estende per centinaia di chilometri oltre San Pedro è silenzioso e vuoto. Non vi è traccia di vita animale. Nemmeno un insetto. In compenso, come ci ha ricordato Patricio Guzmán, regista cileno, nello struggente Nostalgia della luce, 2010, vi sono ancora i resti delle vittime desaparecidos della dittatura fascista, di cui i parenti ostinatamente vanno alla ricerca. Sono tuttavia, i cani liberi di San Pedro, più delle persone, a convincermi che questa terra è ancora, nonostante tutto, di coloro che qui sono nati e vissuti. Non vi è crinale desertico, o salar o geiser o canyon in questo angolo sperduto di terra solenne- mente dominato dalla mole del vulcano Licancabur (la cui altezza sfiora i 6.000 metri) che non sia costantemente percorso, violato da torme di turisti voraci, come trovarsi improvvisamente in una strada di città affollata di gente all’ora di punta. Ogni crinale o sentiero percorso, dunque, si trasforma nella metafora del confine tra la pura e semplice bellezza e il suo sfruttamento intensivo al pari di qualsiasi altra merce. I cani ci attendono ad ogni angolo di strada come se sapessero che presto o tardi passeremo di lì, e li riconosceremo. Impariamo lentamente a conoscerli, a distinguere l’uno dall’altro con più facilità di quanto non facciamo con i turisti stranieri che al di là dell’apparente diversità, sembrano tutti ricercare con ostinata impazienza la stessa cosa nascosta tra le pieghe della natura che l’uomo al principio aveva imparato a rispettare.
Alcuni decenni fa, mi dice con un certo orgoglio una vecchia signora di Santiago, San Pedro era occupata dagli hippies che vi ravvisavano la loro Big Sur, ben sapendo che oltre le montagne della Bolivia, che è quasi dietro l’angolo, nella regione d’Oriente, era morto il Che, sola icona rivoluzionaria rimasta ancora intatta, anche se un po’ appannata, in tutto il mondo. Ma se quest’ultimi, in fondo, sapevano trarre dallo spirito del luogo una qualche saggezza, oggi, invece, i figli e i nipoti della globalizzazione si limitano perlopiù a cercare fondali consolatori entro cui muoversi come comparse travestite da protagonisti. Superata, finalmente, la frontiera tra Cile e Bolivia, la jeep avanza speditamente, in direzione del primo luogo di visita. È un viaggio lungo e faticoso attraverso piste, sentieri, guadi, luoghi di struggente e solitaria bellezza, accompagnato dalla sicurezza matematica di non essere soli. La paura della solitudine e dei silenzi della Cordigliera spingono, sempre più, con la scusa dell’avventura, verso i viaggi di gruppo. Infatti, ad ogni sosta, in una laguna solitaria abitata da fenicotteri rosa e da placidi lama, in un canyon che sembra un castello di roccia o l’antica rovina di una città, in un lembo di deserto che porta il nome di Salvador Dalí per via di un quadro celebre che raffigura strane formazioni di pietra affioranti sulla superficie levigata della sabbia, o infine un cimitero ferroviario immerso nel nulla, la reazione è sempre la stessa come se i luoghi si assomigliassero tutti: voglia di selfie come a una Gardaland delle Ande, desiderio di sormontare aspri dorsali o vagoni ferroviari in disuso, dove l’importante è l’esserci hic et nunc, e “dominare”… il nulla.
Sebbene l’essenza del viaggiare non stia affatto nella meta da raggiungere con tutti i mezzi a disposizione, ma in tutto ciò che avviene e che appare allo sguardo, durante il percorso, lo scopo di tutti quanti era di raggiungere una delle celebrate meraviglie, ovvero il Salar di Uyuni, nella Bolivia sud-occidentale. È inverno e la salina più grande del mondo si presenta ai nostri occhi come un vasto deserto bianchissimo popolato da ingannevoli fate morgane. In realtà nell’avvicinarci sempre di più scopriamo che si tratta di isole rocciose una delle quali caratterizzata dalla presenza di giganteschi cactus. L’aria è cristallina mentre attendiamo l’aurora. Un nugolo di potenti jeep per turisti smaniosi di essere lì e di poterlo dire agli altri, si disperde come una macchia nera sulla bianca superficie, mentre un altro è già pronto ad approdare all’ennesima attrazione. Ma c’è dell’altro. Scopriamo, infine, che il premio offerto per una così tanta fatica è il T-Rex giocattolo che ciascun autista conserva per quel momento magico: nessuno si sottrae al sorprendente quando infantile artificio per ottenere, grazie al semplice dispositivo fotografico posto sulla superficie del terreno verso l’alto e a una luce particolare, una manciata di foto ricordo con i turisti alle prese con il TRex life-size e altre amenità da lasciare senza parole. Ho chiuso gli occhi, mentre i miei passi sfiorano le buche lasciate dal sale, e per un momento ho pensato che se tutti i cani, proprio tutti, di San Pedro de Atacama, facessero improvvisamente irruzione, in ordine sparso, nella bianca distesa di sale, noi diremmo con soddisfazione che la bellezza è sorpresa, imprevedibilità e non sogno preconfezionato, perché abbia davvero una funzione positiva sulla nostra percezione delle cose e perché no, sulle nostre vite.