Fine di un ciclo. Il patron della Fiorentina Andrea Della Valle (Ansa)
Zero titoli in diciassette anni, e siamo ai titoli di coda sulla lunga storia d’odio e d'amore, tra i fratelli Della Valle e la Fiorentina. Più odio, specie nelle ultime settimane, che amore, tra la proprietà, durata 17 anni, e la città di Firenze. Un’amore mai sbocciato, perché diciamoci la verità, per i fiorentini patron Diego e suo fratello il presidente Andrea Della Valle, sono sempre stati considerati degli “stranieri”, dei marchigiani.
Ma come il Raffaello d’Urbino è stato un maestro del Rinascimento, anche i Della Valle dalla minuscola Casette d’Ete (Fermo) sognavano di riportare Firenze agli splendori del passato. Da fini artigiani del cuoio, (scarpifici del lusso) pensavano non fosse così difficile costruire un piccolo impero anche nell’industria del pallone. E invece, per loro la mission è diventata impossibile. L’ultima rivolta di piazza dei tifosi viola, con striscioni del tipo «meglio scalzi che Tods», le minacce e i panni sporchi di famiglia mai risciacquati in Arno, hanno sancito la fine. Da amanti del calcio di tradizione, che non è quello storico fiorentino (lì siamo in un altro campo, perdonateci), la notizia della resa dei Della Valle ci dispiace.
La memoria assai corta del popolo degli stadi (Artemio Franchi compreso) forse non ricorda che Diego e Andrea presero una Fiorentina moribonda, quella purtroppo fallita e fallimentare di Vittorio Cecchi Gori. Era un torrido 1º agosto 2002 quando quel che rimaneva della società gigliata gli venne consegnata direttamente dalle mani dell’allora sindaco di Firenze Leonardo Domenici. E quella non era più neppure la Fiorentina, ma la “Florentia Viola” che ripartiva dai bassifondi dell’ormai estinta C2 per tornare in sole due stagioni ad essere la rediviva Fiorentina da Serie A.
Una categoria ora a rischio, oggi i viola di Montella nei 90 febbrili minuti contro il Genoa (il club più antico d’Italia) si giocano la permanenza nella massima serie. Ma la partita più importante degli ultimi due decenni l’ha già giocata ieri con la cessione dei Della Valle a un “paisà” l’italo americano Rocco Commisso. Una nuova saga famigliare cari fiorentini? Rocco e suoi fratelli, partiti con la valigia di cartone da un piccolo paese della Calabria ( Marina di Gioiosa Ionica), negli Usa hanno messo in piedi il quinto colosso della tv via cavo americana. Patrimonio stimato - da Forbes - di 4,8 miliardi di dollari.
Cifre astronomiche, come quelle apparse quando Milan e Inter sono finite in mano ai cinesi (i rossoneri ora appartengono a un fondo Usa) o quando James Pallotta si è messo a fare l’americano alla Roma. A differenza del bostoniano Pallotta, al Commisso viaggiatore il calcio piace, possiede anche i Cosmos di New York, mitico club che negli anni ’70 ospitava campioni al tramonto (Pelè, Beckenbauer e il nostro Chinaglia). E al tramonto è arrivato anche il calcio a gestione famigliare, che è stato poi il vero “calcio all’italiana”.
I crac finanziari alla fine del secolo scorso avevano cancellato dalla storia di cuoio, e non solo, le famiglie Tanzi, Cragnotti e Cecchi Gori: dinastie imprenditoriali che erano riuscite nell’impresa di iscrivere di diritto e con meriti sportivi, Parma, Lazio e Fiorentina, nell’esclusivissimo club delle “sette sorelle”. Con i Moratti e i Berlusconi fuori dalle sale della nobiltà calcistica, oramai resistono solo gli Agnelli alla Juventus, ma fino a quando?
Al canto delle sirene straniere, asiatiche, arabe e americane, non si resiste più. La decadenza della nostra nobiltà calcistica è anche lo specchio di un’imprenditoria diventata vulnerabile, sempre più soggiogata dalla concorrenza straniera e dal mercato globale. Gli stessi Della Valle, paladini di quel miracolo italiano che è stata la “microimpresa” (Marche docet), si arrendono alla violenza (verbale) ma soprattutto a un mercato, compreso quello del calcio, diventato selvaggio.
Il colmo per Diego e Andrea sarebbe stato restare, in attesa che qualcuno gli facesse le scarpe.