Quando nel dicembre 2003 il Museo diocesano di Milano inaugurò la mostra «387 d.C. Ambrogio e Agostino. Le sorgenti dell’Europa» si riaccese l’attenzione sull’epoca in cui Milano fu capitale nel periodo della Tetrarchia. Dopo la grande e ormai storica mostra del 1990 a Palazzo Reale, toccava al Museo diocesano riproporre, fuori dell’ambito strettamente accademico, alcune questioni nodali di un’epoca molto studiata e certamente non priva di testimonianze archeologiche importanti, ma in qualche modo sfuggenti nella loro reale dimensione storica, risucchiate da una città sempre proiettata verso il futuro e poco propensa a coltivare la memoria, e vanificate dall’opinione diffusa che Milano sia tutto fuorché città d’arte. Ma già nel 2004, al chiudersi della citata mostra «Ambrogio e Agostino», ci apparve chiaro che non avremmo potuto abbandonare il campo, dopo il doveroso tributo ad Ambrogio, perché innanzi a noi, pur lontano, scorgevamo un altro appuntamento, che oggi si concretizza nella mostra «Costantino 313 d.C.». L’Editto di Milano da allora divenne prima una sorta di meta da porre all’interno della nostra programmazione e poi sempre più nel tempo motivo di indagini dapprima lente e articolate e successivamente più precise e meglio orientate. Ma a differenza della mostra dedicata ad Ambrogio e Agostino, questa di Costantino e dell’Editto di Milano si apre a Palazzo Reale, grazie alla preziosa collaborazione del Comune. Più di 200 oggetti di archeologia e arte tratteranno in cinque sezioni fondamentali le tematiche storiche, artistiche, politiche e religiose di Milano capitale, della conversione di Costantino e dei simboli del suo trionfo, dei protagonisti dell’età di Costantino, del cristianesimo imperiale e infine di Elena. Un’epoca intera viene scandagliata nei suoi principali interpreti, fra i quali non può sfuggire l’esercito ed i suoi armamenti, la corte con le sue preziose testimonianze d’arte e di lusso. Conclude la rassegna la sezione dedicata ad Elena, figura straordinaria di madre, imperatrice e santa, celebrata da un’iconografia di cui la mostra espone alcune testimonianze straordinarie. Preparando questa mostra, avevamo tutti in mente che le parole di Costantino e Licinio dovevano essere sottese all’intera esposizione, che in esse trovava uno spunto narrativo e significativo: «Quando noi, Costantino Augusto e Licinio Augusto, felicemente ci incontrammo nei pressi di Milano e discutemmo di tutto ciò che attiene al bene pubblico e alla pubblica sicurezza, questo era quanto ci sembrava di maggior giovamento alla popolazione, soprattutto che si dovessero regolare le cose concernenti il culto della divinità, e di concedere anche ai cristiani, come a tutti, la libertà di seguire la religione preferita, affinché qualsivoglia sia la divinità celeste possa essere benevola e propizia nei nostri confronti e in quelli di tutti i nostri sudditi. Ritenemmo pertanto con questa salutare decisione e corretto giudizio, che non si debba vietare a chicchessia la libera facoltà di aderire, vuoi alla fede dei cristiani, vuoi a quella religione che ciascuno reputi la più adatta a sé stesso». Da sempre questo Editto, detto anche «della tolleranza», è oggetto di varie valutazioni da parte degli studiosi che spesso, ed anche in questa occasione, si attestano su posizioni dissimili. Mentre approfondivamo le ragioni della mostra, non potevamo disattendere la complessità dell’argomento, nonostante l’affascinante chiarezza delle parole di Costantino e di Licinio. Cosa voleva dire parlare di tolleranza riferendoci a questo Editto e al suo contesto? E come evitare la retorica attuale sul tema? Anche la dimensione narrativa della mostra faceva fatica a far interagire i reperti di un’epoca con la riflessione sulla strategia politica-militare di un imperatore che conoscevamo poco, troppo poco rispetto all’idea che di lui ci eravamo costruiti e che la storia e una certa agiografia ci avevano consegnato. La storia non nasconde, però, gli aspetti terribili della figura di Costantino e li mescola, grazie anche all’agiografia della madre, a quelli di una vocazione cristiana su cui è lecito mantenersi a rispettosa distanza, pur essendo riferito da Eusebio di Cesarea come in punto di morte Costantino abbia chiesto il battesimo. La storia di Costantino si intreccia con la leggenda che presto sorse intorno alla sua figura. Alcune fonti – da Eusebio di Cesarea a Lattanzio, ai panegirici, ad altri – descrissero la visione di Costantino (
in hoc signo vinces) e paragonarono la vittoria del 312 al passaggio del Mar Rosso di Mosè, esemplificati in mostra da una serie di frammenti e di rilievi. Il tempo della tolleranza religiosa, proclamata nel 313, si evidenzia attraverso la persistenza di diverse religioni nell’impero costantiniano e dei suoi successori, mediante l’uso, spesso associato, di iconografie cristiane e pagane in oggetti d’arte di destinazione ufficiale o privata, come il rilievo in marmo di
Iupiter Dolichenus e altre divinità, la statua in marmo di Iside Fortuna, la statuetta in marmo di Eracle, tutti dai Musei Capitolini di Roma. Storia e leggenda si mescolano, motivi pagani e cristiani spesso convivono, l’Editto di Milano forse non ha avuto quel significato che gli attribuiamo e Galerio aveva già proclamato il tempo della tolleranza. Non possiamo non rilevare zone grigie in tutto l’arco cronologico che la mostra tocca. Un’epoca attraversata da un forte dinamismo, anche creativo, che sostiene innegabili spinte innovative, mescolando il vecchio e il nuovo in opere mirabili, ma spesso di difficile interpretazione, come del resto lo è tutto il tempo di Costantino.