mercoledì 17 luglio 2019
Fino al 1981 i figli delle ragazze madri venivano strappati alle famiglie e rinchiusi in istituti. Uno di loro, Sergio Devecchi, ha trovato la forza di raccontare la sua vicenda in un libro
Sergio Devecchi, da ragazzo

Sergio Devecchi, da ragazzo

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Nelle foto di tante famiglie svizzere c’è un buco. Riguarda i figli “illegittimi” che, incredibilmente, per legge fino al 1981 venivano strappati ai genitori e rinchiusi in istituto fino a alla maggiore età. Un capitolo buio e dimenticato della storia della Confederazione che improvvisamente, nel 2013, un libro autobiografico di uno di quei ragazzi strappati alla madre ha riportato alla ribalta scoperchiando sofferenze, separazioni forzate e abbandoni. E quel libro, Infanzia rubata, sottotitolo “La mia vita di bambino sottratto alla famiglia” scritto da Sergio Devecchi, è uscito da poco in edizione italiana (Casagrande, pagine 218, euro 20) dopo aver terremotato la società elvetica. Luganese di nascita, Devecchi è un testimone di eccezione perché, oltre ad aver trascorso anni in uno di questi istituti, è riuscito con enormi sacrifici a studiare e a tornarci come direttore senza mai rivelare il suo passato. Ha fatto pubblicamente outing proprio l’ultimo giorno prima di andare in pensione, durante un incontro cui ha invitato i colleghi, nessuno dei quali aveva mai intuito il suo segreto. Sergio Devecchi ha oggi 72 anni, si è trasferito da molti anni a Zurigo e, nonostante i dolori che gli ha inferto la vita (dopo essere stato sottratto alla madre in tenera età è rimasto vedovo con due figli giovani intorno ai cinquant’anni) è un signore mite e pacato.

Quanti ragazzi hanno subito la sua sorte?
Non si sa con precisione, parecchie migliaia. Questa legge in Svizzera è stata cambiata solo nel 1981, in fondo poco tempo fa. Ma è certo che se non fossero stati tolti alla mamma, quei ragazzi avrebbero avuto una vita assolutamente normale, non erano disadattati. A fatica molti si sono ricostruiti una vita affettiva e lavorativa come me. Altri, anche tra i miei compagni, si sono suicidati, non hanno retto i tanti traumi. Dopo la pubblicazione della prima edizione del mio libro ho ricevuto molti messaggi e telefonate di persone che avevano vissuto esperienze simili.

Che obiettivo aveva la legge?
La tutela della morale anzitutto. Si riteneva che un figlio illegittimo potesse avere problemi a crescere con una ragazza madre e perciò le veniva tolto e inviato in questi istituti, spesso gestiti da enti religiosi cattolici o protestanti.

Chi l’ha mandata in istituto?
Non l’ho mai capito, nessuno mi ha mai spiegato perché un giorno mi sono trovato a vivere con persone sconosciute. Non ho trovato le carte sul mio caso, sono passati troppi anni. Forse mia nonna, poi il parroco e le autorità cittadine. Ma non ho le prove.

Non ha mai ricevuto visite?
Pochissime volte mia madre con mia nonna, ma per pochi minuti. Le visite non erano incoraggiate, ovviamente, e provocavano dolori e tormenti. Dopo questi traumi, quasi un altro abbandono, spesso provavamo a fuggire per tornare dalla mamma, ma venivamo segnalati e catturati dalla polizia. Poi venivamo puniti duramente in istituto.

Come ha resistito?
Fantasticando su mio padre, che non ho mai conosciuto. Sognavo che fosse un uomo forte e bello e che mi venisse a prendere.

Ha recuperato un rapporto con sua madre? Non ha avuto una vita facile. Si è sposata una prima volta e sono andato a trovare la sua nuova famiglia. Ha avuto tre figlie. Poi suo marito si è suicidato e anche loro sono finite in istituto. Si è risposata e dopo cinquant’anni lei e il secondo marito stanno ancora insieme. Ma non gli aveva detto che aveva anche me e quando sono andato a trovarli lui non sapeva chi fossi e lei non ha voluto incontrarmi. Così ci siamo rivisti quando sono diventato padre. Dopo il libro abbiamo parlato, ma non posso dire di avere un vero rapporto filiale. Anche con le sorelle è complicato, c’è chi ha capito e chi non accetta il passato. Però almeno la famiglia si riunisce ogni tanto.

Perché ha scelto di tornare in istituto da direttore?
Volevo aiutare i ragazzi come me. Nel libro ho solo accennato alle punizioni, al clima di paura in cui vivevamo e agli abusi. Quando ad esempio i sorveglianti ci scoprivano a parlare in camerata con le luci spente, ci facevano camminare di notte nella neve a piedi nudi. E guai a chi provava a fuggire per tornare dalla mamma. Non volevo che provassero quello che ho provato io, è stata la mia esperienza ad aiutarmi. Non ho mai punito chi tentava la fuga. La punizione per me non è educazione. Credevo nella educazione e nella formazione professionale. Ero aperto ai bisogni e ai desideri. Dopo il 1981 negli istituti sono arrivati ragazzi mandati dai servizi sociali con problemi di dipendenza e disagio, ma non ho cambiato metodo. Ho tenuto un buon rapporto con tutti.

Perché ha taciuto del suo passato fino alla fine?
Mi vergognavo come se avessi delle colpe. È una ferita profonda rimasta in tutti quelli passati dagli istituti.

A cosa è servito questo libro? In Svizzera c’è stata una grande reazione, il libro ha aiutato a guardare al passato e a rielaborarlo. Una commissione federale di storici ci sta lavorando, le autorità si sono scusate. Almeno ci sia memoria di tanto dolore.

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