«Ero nella stanza alta del castello sul mare. Era l’alba e il castello si risvegliava. Al piano terreno c’erano Francesca ed Elena, una sua allieva, che accendevano il fuoco nel camino». È l’immagine dalla quale ha inizio il nuovo libro di Antonia Arslan. L’autrice della
Masseria delle allodole la racconta così come le viene in mente, senza rileggere. Racconta e gli occhi le si illuminano. «Ancora oggi, a ripensarla, quella visione mi trasmette una grande gioia. Mi fa sentire serena, protetta da qualcuno. Così come in quei terribili momenti mi riscaldava, mi rendeva capace di aspettare. Perché metà della sofferenza nella malattia è data dall’attesa».Attesa, come di chi è ricoverato in terapia intensiva e non può muoversi e per ogni cosa dipende dai medici, dagli infermieri. Attesa e combattimento, come di chi è in coma, vorrebbe esprimersi e non può parlare e non sa se potrà tornare come prima, se deve attendere di vivere o di morire, se potrà amare con gli stessi gesti e le stesse parole chi ha sempre amato. Combattimento di chi lotta fra il bene che vuole redimere e il male che vuole gettare nella disperazione, in ogni caso e comunque, che si viva o si muoia.Si potrebbe dire che il libro racconti l’attesa. Edito da Rizzoli, nei prossimi giorni in libreria, si intitola
Ishtar 2. Cronache da un risveglio (pp. 110, euro 13). Nome che nasce dalla fusione di Ishtar, «la dea del pantheon assiro, colei che è chiamata l’Argentea, la Signora della Luce Risplendente», con l’appellativo che indica il reparto di terapia intensiva Istar 2 dell’ospedale di Padova, in cui la scrittrice è stata portata in fin di vita il lunedì dell’Angelo del 2009 e in cui Francesca ed Elena sono infermiere.«Questa è la storia del mio risveglio», sottolinea Antonia Arslan. Una storia dove c’è un posto solo marginale per quel calcolo renale che la porta alle soglie della morte, per quel rene che va in setticemia e che provoca dolori terribili e che avrà bisogno, dopo il risveglio, di due operazioni per essere guarito. In
Ishtar 2 c’è solo il mondo piccolo di una donna che è in coma, non è più padrona del suo corpo, ma solo della scelta di lasciarsi vincere dalla disperazione o di combattere per ritrovare la speranza. Che non ha niente a che fare con la decisione di vivere o di morire, ma è esattamente la scelta fra il combattere e il soccombere. Dove chi vuole farti soccombere è il male, inteso nell’accezione demoniaca di colui che vuole gettarti nella disperazione semplicemente perché in questo modo ti allontana dalla speranza.Sono «i sussurri malefici del buio» descritti nel libro. Non un’invenzione di romanzo. Antonia Arslan li ricorda ancora oggi, distintamente, e come allora prova la medesima ansia da disperazione. «Era come se venissi aggredita da questi sussurri malefici, che si insinuavano nei pensieri, negli incubi per convincermi che per me non c’era più niente da fare. Un abisso nero che mi attirava e dal quale ogni volta era necessario divincolarsi. Quello stesso abisso nero – sottolinea –, che tanto terribilmente ha agito nel genocidio degli armeni, raccontato nella
Masseria delle allodole»Vengono in mente le visioni dei santi, le tentazioni dei grandi mistici. In molti passaggi del diario di santa Faustina Kowalska si legge qualcosa di simile. Lei umile suora, che improvvisamente si vede aggredita da un branco di cani neri e ululanti. Non può fare altro che pregare e pregando li vede allontanarsi e svanire impauriti, uno a uno.Antonia combatte. Tutto il libro è un grande combattimento. «Sulla ghiaia – si legge a pagina 33 – un passo si avvicina. Chi arrivava pian piano alle mie spalle? Non una presenza malvagia, né ostile. Qualcuno che silenziosamente, senza toccarmi, mi annunciava che veniva da lontano, con ali piumate ma senza sorriso, e ordinava: "Combatti"».E non si pensi all’angelo con la spada sguainata, così come i combattimenti dell’umile Antonia distesa sul suo letto, con due tubi in gola, attaccata ai mille fili delle macchine, non sono combattimenti da cavalieri senza macchia e senza paura. I sussurri malefici le aleggiano intorno come le sirene con Ulisse e lei, debole donna, come l’eroe greco sa di non poter confidare sulle sue forze. Allora si fa forte della forza dell’angelo, si rifugia nei bei ricordi di un tempo, nelle buone maniere delle infermiere che la rassettano e la fanno sentire viva, attende disperata l’aiuto della dottoressa che passa, vorrebbe chiamarla e non ci riesce, si appella con tutte le forze all’Alta Signora...Non la Bella Signora delle grandi apparizioni dell’800. Ma l’Alta Signora «che, nei
Quattro quartetti di Thomas Eliot, ha il suo santuario sul promontorio e prega per tutti quelli che vanno per mare. L’Alta Signora del XXXIII canto del Paradiso di Dante, che si china su chi domanda e "liberamente al dimandar precorre". L’Alta Signora di certe iconografie medievali, che avevo ricordato – più o meno un anno prima – in una poesia scritta in una cittadina degli Stati Uniti che si chiama Kalamazoo, dove ogni anno si tiene un convegno di studi medievalisti».Più oltre, in
Ishtar 2, eccola ancora: «Lei c’era, da qualche parte, la Signora che scacciava le tenebre... E allora sentii la sua mano sui capelli». Al risveglio, «la prima cosa che ho chiesto a mia figlia è stato il canto 33 del Paradiso». Poi «ho voluto ricordare quello che mi era accaduto e una per una quelle visioni paradisiache e quei tormenti sono riemersi, così come li avevo vissuti».