Il Gigante di Monterosso
La notizia è di qualche settimana fa e ha fatto il giro del mondo. Il Gigante di Monterosso sta cadendo a pezzi, ed è stato transennato in attesa di restauro. Non si tratta di un’opera d’arte, ma di una ciclopica e scenografica scultura in cemento armato edificata sulla scogliera da un artista come Arrigo Minerbi. Il problema, però, più che la scultura, è Monterosso e la logica con la quale da troppo tempo si pratica la messa a frutto turistica delle bellezze artistiche e paesaggistiche del nostro Paese. Tema di grande attualità, tanto più oggi che a Palazzo Altemps a Roma inizia la due giorni degli “Stati generali del paesaggio”, con, tra gli altri, ministro Franceschini, il premier Gentiloni e il cardinale Ravasi.
Il paesaggio, bene fondamentale per il nostro Paese, andrebbe salvaguardato e usato, mai, però, sfruttato al solo fine di fare economia. Una logica, quest’ultima che sembra (il dubitativo è d’obbligo, perché potremmo aver interpretato male) avere teorici e promotori in alcuni nostri ministri e ministeri, che da due decenni affermano la necessità di fare cassa, cioè turisti, con quello che di più bello abbiamo.
Del resto siamo il Paese con la più alta concentrazione di bellezze artistiche e paesaggistiche del mondo. Quale deve essere il modello? Facile: «Pensate al Louvre», è il mantra che si è ripetuto per anni. È il museo più famoso del mondo. Una macchina ben oliata, in cui l’arte contenuta nelle sue sale è parte di un grandioso centro culturalcommerciale che produce molti più quattrini dei biglietti venduti, che sono prossimi ai dieci milioni l’anno. Poiché l’Italia è un museo diffuso, l’aspirazione è di farne un Louvre diffuso risolvendo, si teorizza, buona parte dei suoi problemi economici e occupazionali. L’idea c’è e ha una logica. Ma deve essere governata.
Questo significa un progetto in cui il turismo e la cura delle nostre bellezze vanno di pari passo con un contesto produttivo reale e compatibile, cioè capace di continuare a creare ambiente, cultura e bellezza per il futuro. Un progetto che deve essere nazionale (Sviluppo economico, Ambiente, Beni culturali, Istruzione, Politiche agricole) e poi di ogni regione, comune, museo, area archeologica, università e liceo; di ogni comunità montana, parco nazionale, distretto industriale, agricolo o artigianale: ognuno secondo le proprie prerogative e necessità. Insomma, Capri come Roma, la Toscana come il Molise, gli Uffizi come Brera, il Gran Paradiso come la Maiella e via dicendo.
Ed eccoci all’esempio iniziale: perché proprio Monterosso al Mare? Perché a Monterosso e nelle Cinque Terre si concentrano tutti gli elementi che fanno la fama del Bel Paese. C’è una straordinaria bellezza ambientale; una storia che ha prodotto borghi incantevoli, opere d’arte ed emblematiche strutture agricole; ci sono un parco regionale, un parco letterario e un’area marina protetta; si fa parapendio e ci sono interessanti percorsi di trekking, buone strutture d’accoglienza, un buon vino, un clima ideale, una cucina tradizionale.
Un angolo di paradiso dove i turisti sono arrivati già ai primi del ’900 portando un benessere crescente, che fino a ieri non aveva snaturato la secolare capacità di produrre storia, società, cultura e ambiente. Compreso il Gigante, compresa la poesia di Montale e quella di Cardarelli, compresa la santità di Semeria, la prosa di Maggiani e quella di Gianni Brera, ma anche una delle più singolari e misconosciute cappelle barocche d’Italia, un paio di parrocchiali medievali straordinarie, un seicentesco convento con opere di grandi maestri e santuari di mezza montagna affacciati su un golfo da sogno. Oggi le Cinque Terre sono un incredibile e insostenibile successo turistico. Emblema e simbolo di quella logica di cui si diceva sopra, frutto della efficace campagna di promozione internazionale condotta negli anni ’90 dal Parco regionale (non dovrebbe occuparsi piuttosto di questioni ambientali, come i depuratori che non ci sono e le fogne che scaricano in mare?).
Da due decenni è possibile incontrare cinesi, giapponesi, australiani, neozelandesi, canadesi, americani. Le navi da crociera hanno fatto di La Spezia uno scalo d’obbligo proprio per le Cinque Terre. La stazione ferroviaria di Monterosso produce un incredibile numero di passeggeri. Al piccolo molo del paese, come a quello della vicina Vernazza, da Pasqua a Ognissanti attraccano dieci, venti battelli al giorno, scaricando ognuno 300, 400 persone. L’orribile parcheggio sul mare, che un tempo era un attivo campo di calcio, è sempre pieno di auto.
Le Cinque Terre sono un gigantesco resort. I pescatori non vanno più a pesca ma trasportano turisti. Artigiani e attività tradizionali non esistono quasi più. Le cantine si sono trasformate in una sequenza infinita di focaccerie, gelaterie, ristoranti, friggitorie. Il B&B regna sovrano. I turisti vanno e vengono con i loro trolley: poche ore, un giorno, due giorni e poi via. Come sta accadendo a Venezia, in città turisticospirituali come Assisi e come rischia di accadere in luoghi di recente scoperta come Matera, anche le Cinque Terre stanno diventando “paesi finti”, senza altra ragione che il turismo. Incapaci di tradizioni e di cultura perché non esiste un progetto. C’è solo il quattrino prodotto con efficienza dal “privato”, ma che il “pubblico” non è capace di valorizzare in volano per un futuro di altrettanta bellezza, cultura e ricchezza.
Il caso del Gigante, ammirato nel mondo, ma cadente per superficiale negligenza, è solo un esempio e se ne potrebbero fare centinaia in tutta Italia. Così si erodono le ragioni stesse per cui questi luoghi sono famosi nel mondo, cioè quell’evolvere di cultura e tradizioni capace di produrre strutture sociali e urbanistiche vive, fatte di persone, di famiglie e attività produttive reali, non di semplice fiction. A Monterosso come al Bel Paese serve un progetto per tornare a produrre futuro.