Pochi telefoni, pochissime auto e la tv che trasmette solo per un paio d’ore al giorno. All’inizio degli anni Ottanta la vita a Rangoon era così, ferma in un tempo che esisteva soltanto lì, in Birmania. O Burma, come la chiamavano gli inglesi al tempo delle colonie. Anche se in effetti il nome ufficiale sarebbe Myanmar, Repubblica dell’Unione del Myanmar. Lo storico birmano Thant Myint-U se lo ricorda bene, quella situazione arcaica e pressoché surreale. «L’isolamento – dice – è stato e continua a essere il principale problema del Paese». È uno dei temi ricorrenti di
Myanmar. Dove la Cina incontra l’India (traduzione di Margherita Emo e Piernicola D’Ortona, Add Editore, pagine 448, euro 18), il saggio di Thant Myint-U che in questi giorni è al centro di numerosi incontri in diverse città italiane: lunedì alle 18 l’autore sarà a Milano, presso la Fondazione Corriere della Sera (via Solferino 26); martedì alla stessa ora parlerà alla Casa delle Letterature di Roma (piazza dell’Orologio 3).
Nato a New York nel 1966 e formatosi tra Harvard e Cambridge, nipote del segretario generale delle Nazioni Unite U Tant e amico di lunga data della leader democratica Aung San Suu Kyi, Thant Myint-U ragiona con la disinvoltura e la profondità di un intellettuale anglosassone. Anche lui, sulle orme del nonno, ha lavorato a lungo per l’Onu ed è stato uno dei più ascoltati consiglieri del presidente uscente Thein Sein durante l’avvio del delicato processo di democratizzazione in atto nel Paese. «Al di là della situazione del Myanmar – osserva lo studioso – sarebbe importante che l’Occidente guardasse con più attenzione a quanto avviene in Asia. Per tutta una serie di ragioni, principalmente ma non esclusivamente di natura economica. Penso all’assetto politico di una nazione come la Corea del Nord e, più in generale, agli equilibri all’interno dell’area. La svolta si avrà quando i problemi dell’Asia saranno considerati per quello che già sono, e cioè problemi globali».
Quale ruolo specifico gioca il Myanmar?«Quello assegnato dalla geografia, anzitutto, di corridoio naturale fra due giganti come India e Cina. Cruciale, in questo momento, è la vicinanza con Pechino. Un miglior sistema di relazioni fra i due Paesi è destinato a portare beneficio per entrambi, anche al di là dei vantaggi immediati che può trarne l’economia birmana. In secondo luogo, occorre uscire dal
cliché di un Myanmar logorato dai conflitti interni: adesso sappiamo che una pacificazione è possibile, ma richiede la più ampia cooperazione tra le forze interessate. Infine, immaginare un Myanmar in pace, prospero sul piano economico e pienamente democratico significa rendere giustizia alla funzione di crocevia che questa terra è da sempre è chiamata a svolgere».
Si riferisce ancora al collegamento tra Cina e India?«Non solo. Occorre tenere in considerazione tutta una serie di elementi storici e culturali, che comprendono tra l’altro il rapporto con la Gran Bretagna. Ma la vera posta in gioco è rappresentata dalla possibilità di dimostrare che un Paese come il Myanamar può attuare la transizione verso la democrazia in modo non traumatico».
L’eredità coloniale inglese è ancora così avvertita?«Lo è nella misura in cui ogni esperienza storica lascia una traccia nella consapevolezza di un popolo. Ma non è opportuno isolare un singolo elemento. Oggi in Myanmar sono presenti spinte diverse, in una gamma che dal nazionalismo va alla rivendicazione democratica. A quasi settant’anni dalla fine della dominazione coloniale, il rapporto con Londra non è significativo in sé, ma per quanto gli scambi con l’Occidente possono rappresentare nello sviluppo del Paese».
Qual è al momento la sfida più urgente?«C’è un intreccio che può apparire impressionante tra questioni economiche e politiche, culturali e sociali. Ma il dato più caratteristico, a mio avviso, sta nel genuino desiderio di chiudere i conti con il passato che si riscontra nella maggioranza della popolazione. Una volontà di andare avanti, di uscire dall’isolamento per progettare un nuovo futuro».
Le campagne per la difesa dei diritti umani sono state un momento decisivo, non crede?«Sì, ma questo in fondo è un tratto comune a molte vicende di transizione. In Myanmar, a differenza di quanto avvenuto altrove, l’obiettivo non è stato conseguito attraverso la sollevazione popolare, ma è stato il Governo stesso a cedere, sia pure in modo graduale, alcune sue prerogative. L’elemento da sottolineare è in primo luogo questo e non può essere assolutamente sottovalutato».
La rinascita del Paese passa anche per il recupero del patrimonio artistico?«Certamente, io stesso mi sono speso per la valorizzazione della valle di Bagan, i cui splendidi templi sono stati in passato oggetto di interventi di restauro del tutto inadeguati. E questo, voglio sottolinearlo, non ha a che vedere con questioni ideologiche o politiche. È l’ennesima conseguenza di quel clima di isolamento che ho più volte denunciato e che, ancora oggi, costituisce la prima emergenza del Paese, ancora più grave delle divisioni interne su base etnica o religiosa. I birmani sono sempre stati un popolo dai gusti raffinati e dalla sensibilità cosmopolita. Riscoprire la bellezza del patrimonio nazionale è una maniera per rafforzare una trasformazione che, per fortuna, è già in atto».