Carità in politica: l'attualissimo insegnamento di Aldo Moro
giovedì 9 maggio 2024

Oggi, 9 maggio, è il Giorno dedicato alle vittime del terrorismo e delle stragi. Si celebra il 9 maggio per rievocare quella grande tragedia nazionale che fu il rinvenimento, 46 anni fa, in via Caetani, del corpo senza vita di Aldo Moro, e noi concentrati, quasi ossessionati, dai misteri legati alla sua tragica fine, trascuriamo di andare a fondo della vicenda illuminante, e per niente misteriosa, che lo portò da giovane giurista all’impegno istituzionale: Moro, insieme ad altri promettenti dirigenti cattolici dell’epoca, costituì di fatto il “dono” che la Chiesa fece al Paese, per uscire da uno dei suoi momenti più bui: oltre a lui Dossetti, La Pira, Lazzati, Fanfani, i cosiddetti “professorini” della Costituente.

Lo raccontò lo stesso Moro nel memoriale dalla prigionia brigatista: « Io sono – scrisse – come tanti altri, entrato nella Dc con la spontaneità e l’entusiasmo di una scelta, più che politica, religiosa, dal fervido ambiente associativo dell’Azione Cattolica, ed in specie della Fuci, e delle Acli, di cui fui tra i fondatori. In quel fervore iniziale c’era più fede che arte politica e tale stato d’animo restò per molti a lungo…». Colpisce allora, andando a rileggere un editoriale di Moro del marzo 1946, da direttore della rivista Studium dei Laureati cattolici, come lui avesse già chiaro, alla vigilia delle elezioni per la Costituente, il compito dei cattolici, sebbene nulla avesse ancora deciso circa un suo eventuale impegno in prima persona che poi gli solleciterà l’arcivescovo Mimmi. «I cristiani così non son parte, ma tutto – scrive –, com’è tutto la Chiesa madre delle genti».

Non debbono essere, cioè, al servizio di un partito, fosse pure cristiano, ma dell’intera comunità. «Coloro che professano il cristianesimo hanno i doveri più gravi», insiste. Inserire nel dibattito politico «una forza diversa ed efficace che, senza aspirare al successo immediato, sorregga ed illumini tutti coloro che in buona fede vogliono l’avvenire migliore per la patria italiana». E qui Moro introduce una parola a suo modo rivoluzionaria, “carità”, che sembra oggi sconosciuta in politica. Una «carità operosa ed onnipresente », la definisce, di cui c’è « particolare bisogno» in un momento in cui «la democrazia fa le sue prove in un paese che fu a lungo disabituato al libero gioco delle forze sociali e dove perciò è difficile ritrovare uno spirito di sopportazione, di pazienza e di rispetto».

«Tocca ai cristiani instaurare questo costume – aggiunge Moro – spetta a loro di obbedire a quella carità che tutto crede, tutto spera e tutto sopporta ed è perciò principio di un vivere ordinato e civile, di un vivere libero di uomini che stanno insieme, cogliendo, nelle loro diversità, l’eguale dignità che li accomuna. Senza carità – conclude – una democrazia non può sussistere». Parole che colpiscono, in un momento come quello attuale, in cui la visione cristiana o resta fuori dai programmi o – viceversa – viene esibita al solo scopo di marcare il territorio con gli avversari. Ora, se queste parole fossero state pronunciate da un predicatore di esercizi spirituali, risulterebbero comunque interessanti, ma a renderle davvero sorprendenti e importanti è il fatto che appartengano a un giovane giurista che, a soli 30 anni, usando queste “armi” apprese dal Vangelo, mostrerà di avere una marcia in più in Costituente, proprio in virtù della capacità di ascolto e dialogo che ne faranno forse lo statista più importante della storia repubblicana.

Parole che suonano di grande attualità in un momento in cui ci si interroga sul ruolo e sulla collocazione dei cattolici, mentre c’è una “vocazione” da riscoprire più che una organizzazione da rifare. Parole che indicano una strada diversa, e più efficace, un po’ a tutte forze politiche attuali, che pensano di poter riformare la Costituzione scritta da gente come Moro, Dossetti e La Pira senza parlarsi fra maggioranza e opposizione, scaricando sul popolo degli elettori, con il referendum confermativo che si renderà necessario al non conseguimento dei due terzi nei due rami del Parlamento, la loro incapacità di farsi classe dirigente, andando oltre le logiche di parte.

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