venerdì 10 maggio 2024
L’ex premier di Kadima attacca Netanyahu: «Abbiamo colpito duramente i terroristi ma non abbiamo raggiunto alcun risultato. Il punto è come impedire al gruppo di tenere al potere»
L'ex premier e braccio destro di Sharon Ehud Olmert

L'ex premier e braccio destro di Sharon Ehud Olmert - .

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«Abbiamo colpito duramente Hamas e distrutto gran parte della sua capacità militare. Non è stato, però, raggiunto alcun risultato strategico sempre che il governo ne abbia uno. E questo non cambierà con l’entrata dell’esercito a Rafah». Le parole di Ehud Olmert hanno il suono di una sferzata. L’ex premier nonché braccio destro di Ariel Sharon le pronuncia con tono grave e lento, soppesandole con estrema attenzione. È ben consapevole dell’effetto che produrranno in chi ascolta. All’entrare nel suo ufficio, in uno dei quartieri più esclusivi del centro di Tel Aviv, non lontano dal mercato del Carmelo e dal prestigioso hotel David Intercontinental, viene in mente l’espressione «vaso cinese». La coniò il presidente cileno Eduardo Frei a proposito degli ex leader: come i preziosi vasi cinesi hanno un grande valore ma sono ingombranti da collocare per i successori. Di certo Benjamin Netanyahu non è riuscito a trovare una mensola in disparte in cui “riporre” Olmert. Dall’inizio della guerra a Gaza, l’ex pilastro del Likud poi fondatore del partito centrista Kadima è diventato un riferimento per l’opinione pubblica moderata contraria alle politiche dell’attuale governo. Olmert non può essere accusato di essere una “colomba”. Del resto, accanto alla scrivania ci sono due enormi foto in compagnia di George W. Bush, «un alleato e un amico». La sua amministrazione ha portato avanti il secondo conflitto contro Hezbollah in Libano nel 2006. Lo stesso anno, però, ha riaperto i negoziati con l’Autorità nazionale (Anp) per una soluzione politica della questione palestinese. L’unica in grado di garantire la sicurezza di Israele, pensava allora. Nei successivi diciotto anni – segnati da ulteriori scontri fino al massacro del 7 ottobre – non ha cambiato idea.

Cinque giorni fa, l’esercito israeliano è entrato a Rafah, operazione che lei considera inutile. Come cambia ora la guerra?

L’attacco di lunedì notte è marginale e insignificante. Non è stata invasa alcuna parte di Rafah: il valico si trova ad alcuni chilometri di distanza dalla città. Mi è sembrata più un’azione dimostrativa che una vera operazione militare. Compiuta oltretutto non nei confronti di Hamas quanto delle componenti più oltranziste della maggioranza che Benjamin Netanyahu cerca di accontentare. Israele, dunque, non ha attraversato la “linea rossa” oltre cui gli Usa e la comunità internazionale hanno collocato l’invasione di Rafah. Fortunatamente. Anche perché non avrebbe senso. L’operazione non aggiunge niente rispetto agli obiettivi prefissati. Non è determinante né per smantellare Hamas né per costringere il gruppo a rilasciare gli ostaggi.

Il governo la pensa diversamente.

Secondo l’esercito, a Rafah si nascondono quattro battaglioni di Hamas. Sferrare un attacco della durata di almeno un mese o due, mettendo a rischio le vite dei nostri soldati e dei rapiti oltre che di migliaia di palestinesi innocenti per uccidere qualche miliziano è, come minimo, sproporzionato. Abbiamo già raggiunto obiettivi militari significativi. Il punto è come renderli duraturi.

Lei praticamente che cosa propone?

Gaza è un territorio palestinese abitato da palestinesi. Non è parte di Israele e non deve esserlo né deve finire sotto il suo controllo. La domanda è: resterà una minaccia come è stata finora o i palestinesi, con l’aiuto di alcuni Paesi arabi moderati, saranno capaci di impedire ad Hamas di tornare al potere? Riusciranno a creare una nuova amministrazione depurata dalle componenti estremistiche? Non ho una risposta. Certo, lo spero. Per renderlo possibile è fondamentale che Israele si ritiri completamente dall’enclave e le sue forze siano sostituite da un contingente internazionale con il compito di ripristinare l’ordine e preparare il terreno per il passaggio di poteri alle forze dell’Anp. Al contempo, Israele deve cominciare un negoziato con i palestinesi per trovare un accordo politico basato sulla soluzione dei due Stati. Un’intesa in grado di disegnare un nuovo assetto regionale che, a sua volta, includa la normalizzazione dei rapporti con l’Arabia Saudita.

Ma l’attuale governo accetterebbe l’ipotesi dei due Stati?

No. Ed è per questo che se ne deve andare.

Come?

In un recente intervento su Haaretz suggeriva ai cittadini di inondare le strade per fermare un governo che sta portando Israele allo sfascio. Mi sembra una buona idea.

Spesso si dice che gli israeliani, tranne poche eccezioni, sostengano la guerra a Gaza. È così?

Non direi. Una parte è favorevole, non di certo tutti. La reazione dell’opinione pubblica al 7 ottobre è stata assolutamente emotiva. Ed è comprensibile. Le persone volevano punire i palestinesi, senza distinzioni, assimilati ad Hamas. Quando Joe Biden è venuto a Tel Aviv, però, ha dato a Israele un ottimo consiglio che, purtroppo, non è stato seguito. Alla luce degli errori commessi dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre e causati proprio da decisioni prese sull’onda della commozione generale, ha detto: «Non lasciate che l’ira offuschi il vostro giudizio». Spero che, prima o poi, siano la ragione e il senso delle proporzioni tornino a regolare la politica israeliana.

Vuol dire che la guerra a Gaza non doveva essere fatta?

È fin troppo facile per un ex premier dire, con il senno del poi, cosa andava fatto. Pur tenendo presente questo principio, non posso fare a meno di pensare che sarebbe stato meglio aspettare prima di una risposta militare. E dare la priorità alla liberazione degli ostaggi. La minaccia di una guerra poteva essere utilizzata come strumento di pressione nella trattativa. Se Hamas avesse creduto di potersi risparmiare l’attacco israeliano rilasciando i rapiti, lo avrebbe fatto. Quest’opzione, invece, non è stata presa nemmeno in considerazione.

Qualcuno sostiene che una mancata reazione armata sarebbe stata interpretata come un segno di debolezza…

Non sono un esperto del linguaggio dei segni. Ma so che un Paese forte sa essere paziente. Una leadership debole, invece, dipende esclusivamente dalle ondate emotive che riesce a generare nell’opinione pubblica. Il populismo non può permettersi la pazienza.

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