martedì 14 maggio 2024
I due si muovono a tentoni, senza mai incontrarsi, senza farsi cenni d’intesa, senza cercare davvero una soluzione che faccia tacere le armi. La radiografia di due strategie fallimentari
Zelensky e Putin

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Tra il 1937 e il 1938 – il periodo aureo del terrore staliniano – dei 139 membri del Comitato centrale eletti dal XVII Congresso del Pcus ben 98 erano stati fucilati per “crimini contro lo Stato”. Quanto ai delegati al Congresso, 1.108 sui 1.966 presenti vennero successivamente arrestati e processati come “nemici della rivoluzione”. Era la citska, ovvero la “purga” che Stalin aveva scatenato dopo l’assassinio del ras di Leningrado Sergej Kirov e che sarebbe continuata a fasi alterni fino alla sua morte.

Vladimir Putin non è in grado di eguagliare e tanto meno di superare la torva grandezza del compagno Stalin. Ma nel suo piccolo sembra ispirarsi a lui. È di due giorni fa un fulmineo rimpasto al vertice della nomenklatura che, se nei numeri sembra esiguo, quasi omeopatico, nella sostanza dice moltissimo. All’alba del suo quinto mandato presidenziale Putin candida (si fa per dire: la Duma non farà che ratificare le decisioni dello zar) Andrej Belousov, un economista, al posto del ministro della Difesa Sergej Shoigu, ma soprattutto rimpiazza il più fidato e il più potente degli uomini del suo cerchio magico, quel Nikolaj Patrushev, rimosso dalla guida del Consiglio di sicurezza (faceva ombra a Putin?), che dagli anni giovanili del Kgb a Leningrado ha seguito passo passo la carriera politica e l’ascesa di Putin, diventandone l’alter ego più temuto della Federazione Russa. Cosa Patrushev farà ancora non è noto, in compenso suo figlio è stato nominato vicepremier: un piccolo premio di consolazione. Sopravvivono alla “purga” il ministro degli Esteri Sergej Lavrov – la sua longevità è ormai pari a quella del brezneviano Gromyko – il premier Michail Mišustin e la governatrice di Bank of Russia Elvira Nabiullina. Su Shoigu, architetto dell’annessione della Crimea e del sanguinoso sostegno a Bashar al-Assad, pesano la rivolta della Wagner, il fallito putsch di Prigozhin e l’ombra della corruzione con il recente arresto del suo viceministro Ivanov. Troppo, anche per lui. Ma siluramenti analoghi ai vertici si sono visti anche a Kiev, sul fronte degli aggrediti. Recentemente Zelensky ha rimosso dal suo incarico il suo assistente Rudy Serhiy Leonidovič, l’uomo che aveva sostenuto e favorito la sua ascesa politica. Insieme a lui sono stati licenziati tre consulenti politici e due commissari. Ma a fronte di nomi relativamente poco conosciuti, quelli del comandante delle forze armate Valerij Zalužnyj (rimosso nel febbraio scorso e spedito a Londra) e del segretario del Consiglio per la sicurezza nazionale Oleksej Danilov (retrocesso ad ambasciatore in Moldavia) rappresentano un giro di vite clamoroso.

Apparentemente, si tratta di due momenti di simmetrico cesarismo. L’autocrate di Mosca scompagina il vertice del suo potere per dare una svolta tecnocratica a una guerra dall’esito incerto, forte di un consenso popolare che – al di là dei brogli, delle intimidazioni, della rassegnazione diffusa – è innegabile. Sull’altra sponda c’è un presidente in crisi di consensi come Zelensky, che forzatamente prolunga oltre ogni limite uno sforzo bellico di difesa dall’aggressore che anche il più indulgente degli alleati definirebbe “non produttivo”, in quanto evidenzia solo lo stallo in cui il conflitto si trova e il rischio che un’avanzata su più fronti da parte delle forze russe faccia guadagnare a Mosca ulteriori porzioni di territorio. Un modo per dire che questa è una guerra che non si può vincere.

Anche Putin lo sa, ma sia lui che Zelensky sono scivolati nella medesima trappola. Prigionieri di un labirinto dal quale non sanno, non riescono e forse non vogliono uscire, i due si muovono a tentoni, senza mai incontrarsi, senza farsi cenni d’intesa, senza cercare davvero una soluzione che faccia tacere le armi, chiuda la conta dei morti e metta le due nazioni, quella invasa e quella che oltre due anni fa ha dato via all’invasione, faccia a faccia davanti a un tavolo. Cambiare generali, strateghi, consiglieri diplomatici e suggeritori non porta quasi a nulla. Solo a rischiose variazioni sul tema. L’armistizio, il negoziato, la pace, sono un’altra cosa. E stanno fuori dal labirinto, non dentro.

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