venerdì 3 maggio 2024
Il politico russo condannato a 8 anni per aver parlato di Bucha continua a far sentire la sua voce cercando di parlare ai suoi concittadini
Ilya Yashin

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«Quando parlo con persone che giustificano l’invasione dell’Ucraina, di solito sento gli stessi argomenti. La Nato è ai confini, i russi erano oppressi nel Donbass, Putin non aveva scelta... La propaganda ha piantato queste tesi nel cervello come chiodi, ed è abbastanza difficile tirarle fuori. Ma a volte gli argomenti opposti aiutano. Prova a farlo con i tuoi amici. Immaginiamo cosa non sarebbe successo se Putin non avesse dato l'ordine di attaccare il 24 febbraio».

A parlare così è Ilya Yashin il politico russo rimasto nel Paese continuando a opporsi al regime di Putin e all’invasione dell’Ucraina. A giugno del 2022 l’arresto e a dicembre dello stesso anno la condanna a 8 anni e mezzo di carcere per avere denunciato il massacro di Bucha sui suoi account social. Yashin da giovanissimo collaborava con il leader dell’opposizione Boris Nemtsov (ucciso nel 2015).

Alla morte di Alexeij Navalny con coraggio e il suo tradizionale tono di sfida continua a far sentire la sua voce promettendo di resistere a nome dei suoi amici e colleghi già caduti, consapevole del pericolo che corre. Scrive costantemente lettere dal carcere che vengono diffuse tramite il suo account Instagram e Telegram. Questa che riportiamo è stata pubblicata il 22 aprile scorso. Anche lui come Oleg Orlov o Vladimir Kara Murza e altri prigionieri politici cerca di rivolgersi ai cittadini russi in primo luogo.

«Pur consapevole dell'inasprirsi della minaccia del regime nei confronti di chi osa continuare a esprimere il dissenso e tanto più diffonderlo pubblicamente», Yashin continua a farlo e forse anche con un senso ancora più deciso di sfida.

Le voci dell'opposizione non si spengono nonostante tutto. In primo luogo, decine di migliaia di persone da entrambe le parti non sarebbero morte. «I padri ­– scrive ­– porterebbero i figli a scuola invece di marcire sottoterra. I mariti non sarebbero stati separati dalle loro mogli. Le madri preparavano bliny (crêpes ndr) per i loro figli per la Maslenitsa (festa di addio all’inverno) e non piangerebbero sulle loro bare. Ditelo ad alta voce: le persone sarebbero ancora vive. In secondo luogo, le città con popolazione di lingua russa non sarebbero state distrutte. Sul lungomare di Mariupol, continuerebbero a camminare le madri coi passeggini invece dei carri armati. Nei caffè di Bakhmut sarebbe ancora un luogo per incontrarsi e non per allestire nidi di mitragliatrici. Queste sarebbero città vive, non rovine intrise di sangue. Belgorod, Shebekino, Grayvoron e altre non avrebbero sofferto i bombardamenti e le loro popolazioni non sarebbero morte o evacuate. Sarebbero territori sicuri, i cui abitanti conoscerebbero la guerra dai film o dai libri. In terzo luogo, il nostro Paese risparmierebbe trilioni di rubli, che oggi vengono spesi per bruciare attrezzature e esplodere proiettili. Questo denaro potrebbe migliorare la vita e la situazione sociale letteralmente di ogni russo invece di diffondere morte in tutta l’Ucraina. Infine, migliaia di nostri compatrioti non sarebbero ora in prigione per essersi rifiutati di andare in un Paese straniero e di ucciderne chi si difende. Pensate: niente di tutto questo sarebbe successo. Tutta l’oscurità degli ultimi due anni sarebbe solo una storia dell’orrore per allarmisti o incubi notturni delle persone comuni. Questa guerra valeva così tante vite e distruzione? E vale la pena continuare con questa follia?».

In un clima di arresti, condanne e morte di prigionieri politici come nel caso di Alexander Demidenko, la sua come altre voci dell'opposizione non si spegne. Nonostante tutto.

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